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IL CARCERE di CESARE PAVESE (1908-1950)

Creato il 29 ottobre 2014 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr
IL CARCERE di CESARE PAVESE (1908-1950)

Stefano, protagonista di questo racconto pubblicato nel 1948, giunge in un piccolo paese dell’Italia centro-meridionale. È stato mandato qui dal regime fascista a scontare una pena, come capitò nella realtà a Pavese, condannato nel 1935 a tre anni di confino a Brancaleone, in Calabria. Non sappiamo nel dettaglio quale sia il reato specifico, anche se è chiaro che si tratta di un reato politico. Ma di politica non si parla; solo un signore del posto rende omaggio al suo impegno, ma si tratta di alcune parole estemporanee. In una borgata vicina verrà mandato un altro confinato di cui si sa che è un anarchico voglioso di incontrare Stefano che però rifiuterà. Il giovane non ha più interesse per la politica o per temi generali; rifluisce fin da subito in se stesso. È arrivato in manette, ma poi la sua esistenza ha potuto dispiegarsi in modo diverso, in uno stato di semilibertà. Infatti vive in una piccola casa che non è una prigione; riceve un sussidio, una donna viene a occuparsi delle pulizie, può muoversi e girare a patto di rientrare ogni sera per le sette. Il maresciallo dei carabinieri viene a controllarlo nei primi giorni, poi lo lascia in pace. Può andare a nuotare, accompagnare un giovane del posto a caccia, stare all’osteria. La sua è una situazione sospesa e indefinita; tiene una valigia pronta, nel caso gli venga comunicato l’avviso del recupero della libertà o del passaggio a un carcere vero. Anche molti giovani del paese sono in una situazione sospesa; tanti parlano di andare via, di partire, qualcuno sembra vicino a sposarsi, ma rimanda. Non c’è il senso di attesa di certe opere di Buzzati; qui ci sono la staticità e l’incompiutezza, il ruotare acritico intorno allo stesso punto. La vicenda è declinata da una prosa che descrive con calde carezze pittoriche il paese sul mare dove c’è vita solo nelle chiacchiere dell’osteria e nella malizia di certi sguardi femminili. Nel villaggio non arrivano le fanfare del regime a celebrare un risultato o a indicare una meta; tutto è ripetitivo, senza sbocchi. Solo il dolce rumore del mare e il fragore improvviso del treno danno l’idea che lontano da lì ci siano altri posti, altri mondi, reali possibilità di libertà e di avventura. Stefano non sembra l’unico confinato.

Viene soprannominato ingegnere; in realtà non ha ultimato gli studi. Non parla quasi mai del futuro, passa molte ore a casa e ama stare solo. Solo Giannino, tra i giovani del luogo, entra in confidenza con lui, ma rispettandone la voglia di solitudine. Nasce una relazione tormentata con Elena, la signora delle pulizie; ma è un rapporto carnale, sono due sconosciuti che passano alcune ore insieme in clandestinità, senza dialoghi veri. È attratto in realtà da un’altra donna; anche qui è un’attrazione priva di sentimenti. Conosce tanti coetanei del paese, ma c’è sempre un muro a frapporsi; fatica a capire la mentalità del posto e in definitiva non porta alcun miglioramento, nonostante sia una persona colta. Quando gli arriva l’annuncio della libertà, l’amico Giannino è in carcere e quindi non può incontrarlo; vorrebbe salutare in modo affettuoso Elena che però rimane fredda e distaccata. Il giovane parte e il piccolo paese viene lasciato nell’oblio.

Sembra un racconto in cui tutti sono sconfitti, forse prima di aver iniziato a combattere. Il protagonista è abulico e pavido, le autorità presenti sono solo quelle di pubblica sicurezza, manca ogni slancio e si vive attendendo che altri decidano al proprio posto: c’è un confino politico, ma anche uno esistenziale, passivamente accettato, forse segno di immaturità. Il piccolo centro sembra non interessare a nessuno, né al regime e nemmeno a chi l’ha sfidato ed è stato per questo condannato. È un incontro tra sordi; il confinato e la gente del paese restano divisi da un solco profondo, nonostante le ore che Stefano passa all’osteria: “A volte, giocando alle carte nell’osteria, fra i visi cordiali o intenti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e precario, dolorosamente isolato, fra quella gente provvisoria, dalle sue pareti invisibili”. Non c’è autentica comunicazione; il giovane non vive in un vero carcere e in una vera cella, come abbiamo visto, ma ci sono le mura invisibili tra le persone, nel racconto come nella realtà, costruite dalla paura, dall’apatia, dalla mancanza di volontà. Sono queste mura a vincere.


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