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Nata nel 1905 dalla fusione delle attività siderurgiche dei gruppi Elba, Terni e Bondi, l’Ilva passò sotto il controllo dell’IRI insieme a tutte le imprese di proprietà della Banca Commerciale Italiana, che l’aveva rilevata nel 1921. Nel 1961, con la costruzione del nuovo polo siderurgico di Taranto, l’Ilva prese il nome di Italsider.
Nel 1995 ITALSIDER, produce circa 240 milioni di euro di utili, ma l’IRI di Prodi e il Governo decidono di vendere ll pezzo pregiato della siderurgia italiana e lo fanno ad un prezzo di almeno cinque volte inferiore al prezzo del mercato. Questo è quanto denunciano gli esperti del settore all’epoca dei fatti.
L’imprenditore milanese Emilio RIVA si aggiudica la siderurgia pubblica italiana battendo il rivale storico Luigi Lucchini alleato con i francesi della Usinor. Riva ha fondato nel 1954 la società che porta il suo nome, è specializzato in acciai lunghi e punta ad acquisire altre aziende anche all’estero. Per vendergli l’Italsider, Romano Prodi, tramite l’Iri, crea una bad company e la carica di 7000 miliardi di debiti, e così Riva si può prendere tutto “il malloppo”. Ma esaminiamo in cifre di cosa stiamo parlando: una società che produce utili al ritmo di 100 miliardi al mese, il fatturato è di 9000 miliardi e i debiti sono 1500; quando entrano. I Riva pagano(?) allo Stato 1460 miliardi “salvo conguaglio”, quadruplicano il giro d’affari e mantengono così i 17mila dipendenti. Ma a quel punto cominciano a nascere i primi problemi.
Il gruppo apre immediatamente un contenzioso con lo Stato contestandone la valutazione patrimoniale e i conti pattuiti e paga quindi solo la prima rata. Nessuno o pochi si oppongono. Nel frattempo, il gruppo Riva riesce a scaricare sullo Stato i costi dei prepensionamenti che riguardano ben 14.000 unità, il mercato dell’acciaio ha un’impennata positiva ampiamente prevista e il Gruppo che ha acquistato l’azienda per un piatto di lenticchie e non le ha nemmeno pagate tutte, fa guadagni fantastici (si parla almeno di 800 milioni di utili in 3 anni), investendo naturalmente pochi spiccioli in ambiente e sicurezza, con i danni che oggi conosciamo.
Riva infatti chiede allo Stato uno sconto di 800 miliardi per adeguare gli impianti alle normative ambientali, sospendendo il pagamento del conguaglio di 228 miliardi dovuto all’IRI per i profitti accumulati e rimasti in azienda dopo la privatizzazione. Al primo contenzioso davanti al tribunale, Riva si presenta con Guido Rossi come avvocato e la spunta: alla fine tirerà fuori solo 180 miliardi.
Per una società che nel 1995 fa 2280 miliardi di utili, una bazzecola. Nel frattempo lo stesso Riva ha comprato e rivenduto la sua partecipazione nella Acciai Inossidabili Terni alla Thyssen Krupp. Nel 2007 viene condannato a tre anni di reclusione per omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro e violazione di norme antinquinamento alla cokeria di Taranto, condanna poi confermata in appello. Nel 2008 intanto scoppia l’allarme diossina.
Tutti hanno la memoria corta e fingono di non sapere: lo Stato, la politica, i sindacati, tanto da destare il legittimo sospetto che la vendita degli stabilimenti siderurgici al Gruppo Riva si sia trasformata in un’immensa mangiatoia. Ma chi erano i protagonisti di quelle privatizzazioni? Il principale attore di quei fatti è Romano Prodi, Presidente dell’IRI per 8 anni in due mandati e artefice della vendita a quattro soldi dei principali gioielli di Stato. Un altro nome è Piero Gnudi, sovraintendente alle privatizzazioni di IRI di quegli anni e consigliere economico del ministro dell’industria nel 1995 e recentemente, Ministro del Governo Monti . Tutto avvenne con il beneplacido del Governo DINI 95/96. Un governo tecnico sostenuto da un po’ da tutti, compreso Lega ed anche DS e PPI, che negli anni successivi diedero vita ad un unico soggetto politico: il PD. Ministro dell’industria era un certo Alberto Clo, bolognese, ma passato alla storia solo per avere partecipato, durante il periodo del rapimento Moro, assieme all’amico e concittadino Romano Prodi, alla seduta spiritica dove un’anima in pena avrebbe rivelato la parola Gradoli, la via di Roma in cui era tenuto prigioniero lo statista democristiano. Molti protagonisti d’allora, oggi hanno la coda di paglia sull’argomento, ma ne hanno la paternità politica. Sono stati gli artefici e i suggeritori, nel migliore dei casi hanno taciuto o si sono bendati gli occhi. Neanche una parola da loro sulla svendita a quattro soldi di tutte le industrie di Stato di cui sono stati i padrini politici, solo memoria corta? La categoria dei “benaltristi” vorrebbe distrarre l’attenzione dal disastro del presente invocando le responsabilità del passato… facile gioco su chi non ha storia o manca di memoria. Cerchiamo allora di aiutarla questa memoria con qualche ricordo.
Nata nel 1905 dalla fusione delle attività siderurgiche dei gruppi Elba, Terni e Bondi, l’Ilva passò sotto il controllo dell’IRI insieme a tutte le imprese di proprietà della Banca Commerciale Italiana, che l’aveva rilevata nel 1921. Nel 1961, con la costruzione del nuovo polo siderurgico di Taranto, l’Ilva prese il nome di Italsider.
Nel 1995 ITALSIDER, produce circa 240 milioni di euro di utili, ma l’IRI di Prodi e il Governo decidono di vendere ll pezzo pregiato della siderurgia italiana e lo fanno ad un prezzo di almeno cinque volte inferiore al prezzo del mercato. Questo è quanto denunciano gli esperti del settore all’epoca dei fatti.
L’imprenditore milanese Emilio RIVA si aggiudica la siderurgia pubblica italiana battendo il rivale storico Luigi Lucchini alleato con i francesi della Usinor. Riva ha fondato nel 1954 la società che porta il suo nome, è specializzato in acciai lunghi e punta ad acquisire altre aziende anche all’estero. Per vendergli l’Italsider, Romano Prodi, tramite l’Iri, crea una bad company e la carica di 7000 miliardi di debiti, e così Riva si può prendere tutto “il malloppo”. Ma esaminiamo in cifre di cosa stiamo parlando: una società che produce utili al ritmo di 100 miliardi al mese, il fatturato è di 9000 miliardi e i debiti sono 1500; quando entrano. I Riva pagano(?) allo Stato 1460 miliardi “salvo conguaglio”, quadruplicano il giro d’affari e mantengono così i 17mila dipendenti. Ma a quel punto cominciano a nascere i primi problemi.
Il gruppo apre immediatamente un contenzioso con lo Stato contestandone la valutazione patrimoniale e i conti pattuiti e paga quindi solo la prima rata. Nessuno o pochi si oppongono. Nel frattempo, il gruppo Riva riesce a scaricare sullo Stato i costi dei prepensionamenti che riguardano ben 14.000 unità, il mercato dell’acciaio ha un’impennata positiva ampiamente prevista e il Gruppo che ha acquistato l’azienda per un piatto di lenticchie e non le ha nemmeno pagate tutte, fa guadagni fantastici (si parla almeno di 800 milioni di utili in 3 anni), investendo naturalmente pochi spiccioli in ambiente e sicurezza, con i danni che oggi conosciamo.
Riva infatti chiede allo Stato uno sconto di 800 miliardi per adeguare gli impianti alle normative ambientali, sospendendo il pagamento del conguaglio di 228 miliardi dovuto all’IRI per i profitti accumulati e rimasti in azienda dopo la privatizzazione. Al primo contenzioso davanti al tribunale, Riva si presenta con Guido Rossi come avvocato e la spunta: alla fine tirerà fuori solo 180 miliardi.
Per una società che nel 1995 fa 2280 miliardi di utili, una bazzecola. Nel frattempo lo stesso Riva ha comprato e rivenduto la sua partecipazione nella Acciai Inossidabili Terni alla Thyssen Krupp. Nel 2007 viene condannato a tre anni di reclusione per omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro e violazione di norme antinquinamento alla cokeria di Taranto, condanna poi confermata in appello. Nel 2008 intanto scoppia l’allarme diossina.
Tutti hanno la memoria corta e fingono di non sapere: lo Stato, la politica, i sindacati, tanto da destare il legittimo sospetto che la vendita degli stabilimenti siderurgici al Gruppo Riva si sia trasformata in un’immensa mangiatoia. Ma chi erano i protagonisti di quelle privatizzazioni? Il principale attore di quei fatti è Romano Prodi, Presidente dell’IRI per 8 anni in due mandati e artefice della vendita a quattro soldi dei principali gioielli di Stato. Un altro nome è Piero Gnudi, sovraintendente alle privatizzazioni di IRI di quegli anni e consigliere economico del ministro dell’industria nel 1995 e recentemente, Ministro del Governo Monti . Tutto avvenne con il beneplacido del Governo DINI 95/96. Un governo tecnico sostenuto da un po’ da tutti, compreso Lega ed anche DS e PPI, che negli anni successivi diedero vita ad un unico soggetto politico: il PD. Ministro dell’industria era un certo Alberto Clo, bolognese, ma passato alla storia solo per avere partecipato, durante il periodo del rapimento Moro, assieme all’amico e concittadino Romano Prodi, alla seduta spiritica dove un’anima in pena avrebbe rivelato la parola Gradoli, la via di Roma in cui era tenuto prigioniero lo statista democristiano. Molti protagonisti d’allora, oggi hanno la coda di paglia sull’argomento, ma ne hanno la paternità politica. Sono stati gli artefici e i suggeritori, nel migliore dei casi hanno taciuto o si sono bendati gli occhi. Neanche una parola da loro sulla svendita a quattro soldi di tutte le industrie di Stato di cui sono stati i padrini politici, solo memoria corta?
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