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Il fiume

Creato il 23 luglio 2010 da Eraserhead
Il fiumeEeeeh (lungo e continuato sospiro di non-solliveo), quanto è ostico Tsai Ming-liang!
Seriamente, il regista di Taipei è creatore di un cinema dilatato aldilà di ogni possibile immaginazione. Il suo universo così plasmato è autoreferenziale come pochi altri: nei modi, sempre piani sequenza che sfidano la pazienza, nei contenuti, sempre storie di solitudine ovattate da una cortina di monotona agonia, nell’estetica, embrioni di flash che ritorneranno in The Hole (1998) e in Che ora è laggiù? (2001). E poi l’ossessione per l’acqua che qui si concretizza già nel titolo, ma che, paradossalmente, ha un ruolo più di secondo piano (o forse no) rispetto allo Tsai futuro. Per dire poi del suo attore feticcio, Lee Kang-sheng, costante presenza come ombra, come spirito, essere vivente ai bordi del cosmo.
Nel tentativo di non venire anestetizzati dalla calcificata regia di Tsai, siamo testimoni di una vicenda che si apre sull’ansa di uno sporco fiume dove una regista non è troppo convinta del manichino che utilizza per una sua scena. Da qui il casuale incontro con Kang-sheng che viene usato come controfigura al posto del manichino. Ma quest’incontro ne sottende un altro ben più distruttivo, quello fra il ragazzo e l’acqua. È indefinibile se la fonte dei dolori al collo di Kang sia dovuta all’immersione nel fiume, o all’incidente in motorino, sta di fatto che dopo la comparsata nel film-nel-film, i legami famigliari dei protagonisti accelerano un processo di sgretolamento che, probabilmente, era già in atto da parecchio tempo. Trattandosi di Tsai non è ovviamente una deriva nichilista rapida e immediata, è un accenno, un soffio, è l’inquadratura della mamma che riflessa nello specchio abbraccia un cuscino guardando un film porno, o è il gioco di sguardi tra il marito e il giovane amante in un fast-food. E poi silenzio che rimbomba, fino alla prossima scena appena suggerita.
Lo spannung si concreta nella dirompente immagine del padre che masturba inconsapevolmente il figlio nel buio della camera d’albergo, il dosaggio di luci è una meraviglia e lo svelamento dalle tenebre del viso baffuto raggela letteralmente il sangue.
È un cinema che ha però la colpa di arrivare dopo. Un ritardo incontrollabile che mina il livello di sopportazione per i motivi sottolineati in passato: privazioni dialogiche e musicali; occultamenti semantici e simbolici. Cosicché il lavoro d’estrazione da compiere è immane.
Eppure, potrà essere anche un abbaglio il mio, ma sento nella (non) poetica tsaiana un mood miseramente, riferito alle miserie che racconta, giusto, quasi necessario. E facendo un parallelo inutile, e allo stesso tempo utile per spiegarmi, fra lui e Bartas, altro fautore della cinematografia silenziosa, trovo che il lituano riesca a dire molto meno con il suo estenuante mutismo rispetto al collega taiwanese, il quale nonostante rifiuti la parola con ogni forza, riesce a incapsulare cristalli di pura realtà nei film che fa. Che sono pesanti, protratti, acquitrinosi come un fiume, ma non per questo inutili, anzi.

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