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Il flusso di sé

Da Barbaragreggio
Il flusso di sé

C’era stato un tempo in cui le bambine danzavano sulle punte, i capelli raccolti in una crocchia di forcine e reti di calza, i volant di tulle a svolazzare sotto la vita, un corpetto di raso colorato a coprirne le forme acerbe.

A quel tempo il suo corpo era diverso dalle leggiadre creature in divenire che la circondavano. Dalla vita in su le rotondità abbondavano ridicolizzate da tessuti lucenti di due taglie più piccole, dalla vita in giù le calze nascondevano a fatica gambe troppo piene, delle quali nessuno poteva indovinare i confini dei muscoli.

I saggi di fine anno corrispondevano all’apice della vergogna. Il volto si colorava di rosso alla vista degli sguardi impietosi di genitori e parenti assiepati su poltroncine di velluto, mentre i piedi si posavano goffi sulle tavole di un palcoscenico di provincia. Il teatro Verdi spettava solo alle migliori, non di certo a quelle come lei.

Con il passare del tempo Alice si convinse del fatto che senza il corpo giusto non sarebbe mai stata accettata da nessuno. Le amiche si riunivano nelle loro camerette di quasi adolescenti a scambiarsi abiti e scarpe, accovacciate su piumoni gonfi e immacolati. Lei si sedeva poco lontano, su una sedia vecchia e scrostata, presa in prestito dalla cucina della nonna di Anita, e stava a guardare, rassegnata. In silenzio osservava quei corpi sottili, i muscoli tesi sotto la pelle diafana, i capelli raccolti in trecce impeccabili.

Chiusa a riccio nel suo dolore, consumava attimi di umiliazione elargendo consigli e complimenti, nella speranza che una di loro si accorgesse di lei. Ma niente, nemmeno uno sguardo.

Fu allora che comprese come non essere accettata potesse dilaniare dentro, anche se era ancora una bambina.

Smise di mangiare, si obbligò a corse infinite, sudò maglioni e canottiere, le gambe a tendersi in salti e capriole. Con il dolore fisico aumentava quel sottile granello di autostima che si era convinta di possedere. Povera illusa.

I vestiti divennero enormi contenitori inutilizzabili, le gambe si assottigliarono, le braccia affusolate e il volto scavato.

Si guardava allo specchio, dopo essersi massacrata per ore in palestra, e contava le ossa dello sterno, le costole, i tendini tesi dietro le ginocchia, le vertebre sempre più appuntite, le scapole irte a torre di vedetta di una pianura desolata.

Di femminile ormai le rimanevano solo il seno piccolo, due mandarini avvizziti, e i capelli da tingere a seconda della moda.

Si sentiva più simile alle altre, ma non accettata. Mai completamente inserita nel gruppo. Era come uno di quei nuovi ricchi che non riesce ad intessere rapporti profondi con gli amici di un tempo, colpevoli di non aver accresciuto le loro ricchezze, ma nemmeno con i benestanti da generazioni, avvezzi al lusso.

Era diversa, nel profondo. Lo capì quando si rese conto che il suo non accettarsi affondava le radici nel buio di un segreto inconfessabile. Talmente doloroso che preferì il dolore del corpo, al dolore dell’anima.

Fu così che una mattina, raschiando la pelle dal polpaccio destro, vide il suo sangue scivolare sul parquet, formando una piccola pozza informe sotto le ginocchia.

Le tremavano le mani, dalla tensione. Il batuffolo di cotone intriso d’alcol si muoveva incerto sopra la ferita che si era inferta, tamponando a fatica il sangue che aveva iniziato ad uscire copioso. La pelle si era sollevata al punto tale da scoprire parte del muscolo, qualche millimetro più sotto stava l’osso. Una fitta di dolore le annebbiò la vista, mentre il freddo dell’alcol si immergeva nella sua carne. Ricacciò in gola un urlo, quello stesso urlo che non aveva liberato pochi istanti prima, quando aveva conficcato le unghie oltre la superficie della sua pelle.

Pianse le lacrime che non aveva mai versato in tutti quegli anni. Pianse per la bambina, per la ragazza, e per la donna che era.

Tamponato il sangue, fermato il flusso di sé fuori da sé, asciugò le lacrime e si guardò allo specchio. Era stanca, di non vivere.

Decise così che, forse, valeva la pena provarci. Da quel giorno, e per i giorni a venire, cercò di amare il suo corpo, perdonandolo per la sua inadeguatezza.

Barbara Greggio


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