di Antonio Scarazzini
In una crisi generalizzata dell’economia di Europa e Stati Uniti, il ruolo trainante dei Paesi emergenti nella crescita della ricchezza mondiale diviene di giorno in giorno più centrale. Tra il 2010 ed il 2030 circa il 70% dell’aumento del PIL mondiale arriverà da quei Paesi: di questa ascesa la Cina sarà grande protagonista e il traino verso la supremazia accompagnerà anche la propria moneta, il renminbi, verso il ruolo di valuta di riserva internazionale. E’ quindi veramente possibile che con la crisi finanziaria scoppiata nel 2007 il dollaro, e con esso la residua supremazia statunitense, sia definitivamente entrato in una fase di inesorabile declino? E’ realistico immaginare, dunque, che nel prossimo ventennio gli Stati Uniti vedano declinare la loro influenza ed il prestigio della loro moneta così come gli anni Venti e Trenta segnarono la fine della supremazia britannica e della sterlina ?
Arvind Subramanian risponde a questi interrogativi costruendo nel suo ultimo libro un indice di “supremazia economica” che tiene conto della quota di PIL mondiale detenuta da un Paese, della partecipazione al commercio mondiale e della posizione creditoria (o debitoria) verso l’estero. L’economista del Peterson Institute for International Economics sancisce l’ascesa della Cina a prima potenza economica nel 2030, pronosticando un divario fra le due economie addirittura maggiore del gap che sul finire degli anni Venti, alla vigilia della grande crisi che portò al collasso del gold standard exchange, separava Stati Uniti e Gran Bretagna. Tra il 1929 ed il 1939, la scelta isolazionista e la mancata assunzione di responsabilità da parte di Washington prolungarono la sopravvivenza della sterlina: le banche centrali di Londra e Washington registrarono ingenti perdite nelle loro riserve auree e non furono in grado né di mantenere stabili i tassi di cambio né di agire come prestatori di ultima istanza di fronte alla crisi di liquidità internazionale.
Con gli Stati Uniti oggi alle prese con una lenta risalita dalla depressione ed un budget federale in affanno, le statistiche sembrano suggerire che Pechino possa effettivamente ambire a quella leadership indiscussa del sistema monetario e commerciale che Washington seppe raggiungere negli anni Cinquanta. Ripercorrendo la traiettoria storica è tuttavia corretto sottolineare come l’ascesa del dollaro fu differita di qualche decennio rispetto al suo affermarsi come primo produttore di ricchezza (fine Ottocento, all’apice dell’egemonia britannica) e potenza commerciale (anni Venti, con in vigore ilgold standard): fu solo a ridosso della crisi di Suez che la sterlina abdicò definitivamente a favore del dollaro nella composizione delle riserve mondiali in valuta estera.
Costruire le basi per una valuta internazionale
A dispetto delle aspirazioni del politburo, il renminbi continua a mantenere una generalizzata inconvertibilità nei confronti delle altre monete, impedendo a imprese o investitori privati di utilizzare lo yuan oltre i confini cinesi per le proprie transazioni: la chiusura del mercato dei capitali, che impedisce a risparmi interni e capitali esteri di fluire liberamente, sostenendo le esportazioni grazie alla fluttuazione controllata dello yuan rispetto al dollaro e all”erogazione di prestiti alle imprese strategiche ad un tasso fissato dal governo. La competitività di una valuta internazionale si gioca sulla stabilità del proprio tasso di cambio e sulla libertà da parte di banche centrali ed investitori di generare flussi di capitali da e verso il Paese di riferimento: l’internazionalizzazione della valuta richiede quindi una sostanziale inversione dei fattori, con una maggiore propensione al consumo ed all’importazione grazie ad uno yuan rivalutato dalla crescente domanda esterna, una conversione dei risparmi in un mercato finanziario dotati di nuovi strumenti in grado di assorbire liquidità e di non generare aumento dei prezzi, oltre che ad una riduzione del surplus di partite correnti e del livello di riserve in dollari.
Il traguardo della piena convertibilità è dunque prioritario e passa per la promozione dello yuan come unità di conto, per la denominazione in yuan delle transazioni commerciali e l’emissione di titoli di debito pubblico la cui contrattazione, sul mercato nazionale o all’estero, sia aperta anche ad investitori stranieri. In tal senso la leadership ha intrapreso una strategia a due binari, nel senso di una promozione dell’utilizzo dello yuan nei commerci con i Paesi dell’area asiatica e della creazione ad Hong Kong di un mercato off-shore per depositi e titoli (i cosiddetti dim-sum bonds) denominati in renminbi che fungerà da banco di prova per l’elevazione di Shanghai a grande centro della finanza mondiale. Al pari degli Stati Uniti, che introiettarono dollari in Europa attraverso il Piano Marshall affinché la crescita economica si accompagnasse con l’acquisto di beni americani, dal 2008 la Cina ha iniziato a vedere accettata la propria moneta nelle transazioni con Laos, Vietnam, Mongolia e Vietnam vedendo salire a giugno 2011 ad oltre 950 miliardi di yuan il valore degli scambi denominati in valuta cinese; per allargare l’utilizzo come mezzo di scambio, Pechino ha poi concordato accordi swap con tredici banche centrali, di cui sei in ambito ASEAN. Tra questi, gli accordi con Corea Giappone e Filippine hanno provveduto a fornire yuan in cambio rispettivamente di won, yen e pesos e già nel 2009-2010 accordi simili erano stati accordati per fornire linee di credito ad Argentina, Bielorussia, Hong Kong, Indonesia, Corea, Malesia, Islanda e Kazakhstan per un totale di oltre 660 miliardi di yuan. Da ultimi giungono l’accordo di settembre con la banca centrale della Nigeria, intenta a convertire in yuan il 5-10% delle proprie riserve estere, e soprattutto l’intesa con il Giappone raggiunta nel mese di dicembre per stabilire la piena convertibilità di yen e yuan nei rapporti commerciali, oltre che l’acquisto di una non ancora precisata quantità di titoli di Stato cinesi da parte di Tokyo. L’accordo rispecchia le linee di una precedente intesa che era stata raggiunta con il Brasile per fissare la convertibilità tra yuan e real sulla base dei commerci bilaterali.
La vera sperimentazione era tuttavia già stata avviata nel luglio 2009 con la concessione a cinque regioni – Dongguan, Guangzhou, Shanghai, Shenzhen, Zhuhai – di avviare una graduale deregolamentazione degli scambi commerciali con il resto del mondo ma in particolare con Hong Kong: nel primo semestre 2010 erano state realizzate transazioni per oltre 70 miliardi di yuan, sufficienti a convincere Pechino ad allargare la sperimentazione sino ad un totale di venti tra province e città. A metà 2011 le transazioni avevano raggiunto un valore di circa 146 miliardi ed i depositi in renminbi nelle banche di Hong Kong hanno raggiunto l’8% dei depositi totali superando i 500 miliardi. Sempre dall’ex colonia britannica è partita la sperimentazione nel settore finanziario con l’emissione dei primi bond denominati in renminbi sia da parte delle autorità cinesi sia da parte di banche o imprese straniere, come la HSBC o McDonald’s.
Ad aprile 2011 le emissioni toccavano i 155 miliardi di yuan ma a rilevare è piuttosto la gradualità con cui, così come si era sperimentata l’apertura all’economia di mercato attraverso le Zone Economiche Speciali, Hong Kong si sia affermata e sia stata recentemente rilanciata dal vice presidente del consiglio di Stato Li Keqiang come piattaforma per la creazione di un sistema finanziario adeguato alle esigenze di un Paese dalle aspirazioni egemoniche. Il mercato obbligazionario deve poter fornire strumenti di varie scadenze e tipologie ed il tasso di interesse deve godere di maggior flessibilità, in modo da aprirsi alle preferenze degli investitori e da generare un legame tra i tassi di breve e lungo periodo. Gli istituti regolatori dovranno poi permettere che tra i mercati on-shore e off-shore (similmente a quello che accadde per il mercato degli eurodollari) si realizzino le condizioni di arbitraggio in modo da fronteggiare eventuali speculazioni in caso di aspettative di apprezzamento interno del renminbi o di aumento del livello dei prezzi.
Yuan e dollaro: sorpasso inevitabile ?
Resta quindi da interpretare la strada che i futuri vertici del PCC percorreranno per far sì che il renminbi divenga una valuta internazionale già entro il 2020, come auspicato nel 2009 da Zhang Guangping, vice direttore della filiale di Shanghai della Commissione Regolatrice del sistema bancario. La gradualità con cui si è avviata prima la rivalutazione dello yuan e poi la sperimentazione ad Hong Kong, lascia intendere che anche l’apertura al movimento dei capitali avverrà su una base fortemente regolata dalle autorità centrali. Se questo atteggiamento ha avuto successo nel mediare fra la pianificazione e l’economia di mercato, sembra meno efficace laddove, come nei mercati finanziari, efficienza e flessibilità rappresentano la principale attrattiva per una moneta internazionale. Se neanche l’euro, forte di una base commerciale pari o superiore a quella americana, è riuscito a scalfire la supremazia del dollaro risulta difficile immaginare nel volgere di un decennio un sorpasso da parte della Cina e della sua moneta. L’enorme liquidità del mercato obbligazionario USA (31,7 trilioni di dollari nel 2010 tra titoli pubblici e privati) continua ad autoalimentare il ricorso al biglietto verde come bene di investimento e rimane nel breve e medio termine un obiettivo irraggiungibile per Pechino.
I primi passi verso l’internazionalizzazione della valuta cinese sono incoraggianti: se la struttura finanziaria non è ancora pronta a sostenerne le ambizioni, è invece assodato che il commercio, in particolare quello con i Paesi asiatici, possa immediatamente diventarne il primo mezzo di trasmissione. La Cina registra i principali deficit commerciali con Giappone, Corea e Malesia e non a caso i primi accordi per le transazioni e gli swap hanno interessato questi Paesi: solo nell’area asiatica, infatti, la Cina potrebbe denominare in yuan circa il 50% delle importazioni ed il 20% delle esportazioni. L’Asia rimane inoltre il continente cui vengono destinati più investimenti diretti esteri, con 94 miliardi di dollari rispetto ai 73 dell’America Latina o i 53 dell’Africa ed una parte di questi potrebbe essere finanziata direttamente in yuan, in modo da allargare la base di moneta circolante all’estero.
La reciprocità tra il raggiungimento dell’egemonia e l’imposizione della propria moneta sulla scena è tuttavia lontana dall’essere pienamente dimostrata, come ben ci ricordano le difficoltà dell’euro e dell’Unione Europea: la moneta unica europea è impiegata per il 25% delle riserve mondiali ma, a dieci anni dalla sua nascita, l’esistenza di un’autorità monetaria e di un sistema di banche centrali (BCE e SEBC) non sono riuscite a compensare l’assenza di una vera unione fiscale e politica alle sue spalle. Investitori e banche centrali hanno continuato a guardare ai mercati finanziari di Wall Street, malgrado il costante aumento degli squilibri commerciali e di una crisi dei consumi sostenuti dall’indebitamento pubblico e privato. E’ difficile ipotizzare quindi che lo yuan possa rapidamente raggiungere ed insidiare il ruolo del dollaro, non solo per la mancanza a suo supporto della adeguate strutture finanziare: il prestigio del dollaro si costruì in particolare grazie alla trasmissione di un particolare modello di produzione e ricchezza. La Cina di oggi, pur nei panni di primo creditore mondiale, trasmette un’immagine di sé piuttosto contrastante: l’elemento della pianificazione statale continua a sopravvivere pur trovando applicazione negli strumenti del capitalismo e anche la strada verso la liberalizzazione del sistema finanziario procede sotto l’occhio vigile del governo centrale. Le proiezioni verso l’aumento della ricchezza non possono nascondere un PIL pro capite di soli 7500 dollari contro i 47000 degli Stati Uniti. Da ultimo, il 2011 ha segnalato l’insorgere di alcune possibili criticità per l’economia cinese, come l’inflazione o l’emergere di una bolla speculativa nel settore immobiliare: per il 2012 la crescita del PIL è stata rivista intorno all’8%, in rallentamento rispetto al trend degli ultimi anni. Il trasferimento di risorse dalle esportazioni ai consumi interni, pronosticato come conseguenza di una rivalutazione del tasso di cambio, rischiano di rallentare ulteriormente le prospettive di crescita e il cammino verso quel mondo unipolare a guida cinese descritto da Subramanian.
Ripensare il sistema monetario internazionale
Più facile prospettare un futuro in cui il sistema monetario vedrà convivere più valute nazionali, tra le quali il dollaro potrà forse conservare uno status di primus inter pares: dopo la fine nel 1971 del sistema di Bretton Woods, caduto insieme alla capacità statunitense di sorreggerne gli obiettivi, il dollaro rimase comunque la valuta di riferimento sia per la crescente quantità di capitali in circolazione sia per il venir meno di valide alternative. Germania e Giappone rinunciarono a sostenere il ruolo internazionale del marco e dello yen, imponendo controlli sui movimenti di capitale per evitare eccessivi apprezzamenti e vedere compromessa la competitività delle proprie esportazioni. La Cina ha invece mostrato, almeno a livello sperimentale, l’intenzione di promuovere l’avanzata della propria moneta, sfruttando la propria influenza commerciale per favorirne una più ampia circolazione. Difficile inoltre ipotizzare che Pechino voglia apertamente sfidare il ruolo del dollaro minandone la stabilità attraverso la diversificazione della proprie riserve: l’impatto depressivo sull’economia americana trascinerebbe con sé anche quei settori dell’export cinese che hanno negli USA il proprio mercato di riferimento. Difficile anche avvalorare l’opzione del potenziamento dei Diritti Speciali di Prelievo come valuta universale: l’unità di conto del Fondo Monetario Internazionale non dispone degli strumenti finanziari e commerciali atti a favorirne la diffusione ma è soprattutto la composizione del paniere valutario, sbilanciato a favore di dollaro ed euro, a richiedere una revisione delle quote di partecipazione al FMI e riconoscere a Pechino un peso pari a quello della sua attuale forza economica.
La simmetria tra i mutamenti che Cina e Stati Uniti si trovano a dover affrontare per far convivere i rispettivi interessi sulla scena mondiale può aiutare quindi a disegnare una nuova strada verso più intense forme di cooperazione: i postumi della Depressione del 1929 mostrarono come la peggior soluzione alle crisi sia il ripiegamento isolazionistico e, inoltre, il mondo globalizzato ha indebolito la figura dello Stato egemone. Il sistema monetario internazionale ha vissuto per anni attorno alla moneta del Paese in grado di assicurare la maggiore produzione di ricchezza: volerne decretare il definitivo declino entro un orizzonte temporale predeterminato ne disconoscerebbe le residue potenzialità, mentre pronosticare l’ascesa della Cina a prossimo leader dell’economia mondiale rischia di oscurare le contraddizioni su cui si è retta dalla svolta post maoista. Con una visione più pragmatica è invece possibile fotografare la realtà di un mondo in cui il trasferimento della produzione di ricchezza verso Oriente e verso Sud ha decretato l’emergere di nuovi attori e di una rete di interdipendenze sempre più forti e necessarie. Replicarne la composizione anche all’interno del quadro finanziario e monetario contribuirebbe a garantire equità alla cooperazione nella comunità internazionale: dollaro e yuan non sono altro che l’emanazione dei poli principali dello sviluppo economico mondiale ed è solo accettandone la coesistenza che si può compiere un passo importante verso la ricomposizione degli squilibri tra Est e Ovest del pianeta.
* Antonio Scarazzini è Dottore in Studi Internazionali (Università di Torino)
Note bibliografiche
Arvind Subramanian, “Eclipse: Living in the shadow of Chinese dominance”, Settembre 2011 Peterson Institute for International Economics
Barry Eichengreen, “Exorbitant Privilege: The rise and fall of the dollar”, 2011, Oxford University Press
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Paola Subacchi “One currency, Two systems: China’s Renminbi Strategy” 10/2010 Chatham House Briefing Paper 10/2010
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IMF People’s Republic of China – Spillover Report for the Article IV Staff Consultation July 2011
IMF World Economic Outlook 09/2011
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