La sua biografia racconta che esordisce nel 2004 con l’antologia “La qualità dell’aria” di Minimum Fax. Sempre per la stessa casa editrice pubblica poi le raccolte “Manuale per ragazze di successo” e nel 2007 “Una cosa piccola che sta per esplodere”, vincitore dei premi Settembrini 2008 e Premio Fucini 2009.
La critica dice di lui: “uno dei giovani scrittori italiani più attenti a sentire e narrare il disagio delle nuove generazioni”.
Giudizio che trova riscontro anche nelle preferenze espresse dai lettori, che lo hanno nominato appunto tra i migliori scrittori italiani del momento.
Con l’intervista a Paolo Cognetti (che ringraziamo per la disponibilità) inauguriamo la classifica 20 UNDER 40 di Storia Continua.
Come sei diventato uno scrittore?
Sono stato prima un lettore. L’incontro decisivo è stato quello con la narrativa americana, che mi ha aperto le porte non solo sulla letteratura, ma sul mondo. Intendo dire che Hemingway, Salinger e Carver per me non sono soltanto maestri, ma scrittori che mi hanno cambiato la vita. È stato naturale a un certo punto imitarli, provare a scrivere racconti come loro. Il primo a diciott’anni, sui banchi di scuola. A venticinque mi sembrava di averne messi insieme alcuni di buoni, e sono andato a bussare alla porta del mio editore preferito.
Il discorso è stato più o meno questo: siccome vi amo così tanto, avete il dovere di leggere le mie storie.
Era la prepotenza degli innamorati. La cosa incredibile è che le hanno lette davvero, e hanno pure deciso di pubblicarle. Mi sentivo come uno che va da una ragazza bellissima e le dice: mi piaci tanto, posso baciarti? E quella invece di tirargli un ceffone gli salta al collo.
Che rapporto hai con le nuove tecnologie? Hai mai pensato di pubblicare online o comunque in versione digitale le tue storie?
Da lettore ho pochissimi rapporti con il digitale. Ho un vecchio portatile con cui navigo in rete e nient’altro, né smartphone, né tablet, e-reader e via dicendo. Un po’ perché non i soldi per comprarmeli, un po’ perché mi lascio distrarre facilmente dal mio lavoro, e sarebbe un disastro. Per lo stesso motivo non frequento i social network. Mi piacciono i libri di carta e mi piace leggere in solitudine, magari seduto su un prato in montagna. Ma questi sono soltanto i miei gusti, non sono una di quelle persone che vedono la tecnologia come il male. Anzi immagino che il futuro sia digitale e trovo stupido opporsi ai cambiamenti, molto meglio capirli e cercare di farne buon uso.
Cosa ne pensi del self-publishing?
Penso che la distinzione tra scrittore ed editore sia necessaria. Lo dico da lettore: ricordo bene la sensazione di aggirarsi in una libreria e non sapere nemmeno da dove cominciare. Per me fu fondamentale trovare librerie belle, editori di riferimento, recensori dai gusti simili ai miei.
L’editore è un filtro tra te e il mondo sterminato delle cose scritte. Alcuni sono una garanzia: seguo regolarmente le loro pubblicazioni, sono come amici fidati che ti dicono “prova a leggere questo, è un bel libro”. Penso che debbano continuare a esistere, anzi che ce ne sia sempre più bisogno.
Poi come scrittore e insegnante di scrittura ricevo spesso testi di aspiranti autori, e posso dirti, senza ironia né crudeltà, che il livello di queste cose è molto basso. Ho ricevuto centinaia di racconti illeggibili. In questi anni mi è capitato solo due volte di trovare testi interessanti, li ho passati agli editori che conosco e alla fine sono stati pubblicati, perché se una storia è bella ci si trova d’accordo, è normale che vada a finire così. Mi sembra che quello sia un percorso sano, così come è salutare per uno scrittore lavorare con un editor, confrontarsi con chi i libri li fa. Avere un editore significa anche quello, stabilire relazioni importanti, scambiarsi idee, capire come migliorare.
Spesso le persone con cui parlo pensano che pubblicare sia difficile, quasi impossibile; io dico sempre che non è difficile pubblicare, è difficile scrivere una cosa bella. Uno scrittore dovrebbe occuparsi di questo.