Scusate, in realtà il proverbio sarebbe “la vita è bella perché è varia”; ma soprattutto in questo periodo dell’anno è difficile, quasi impossibile, scindere la vita dal Gioco, in quanto le ore passate a vedere partite si sovrappongono, almeno per noi appassionati europei, al periodo del giorno destinato al riposo e le ore necessarie a nutrirsi si trasformano in minuti pur di non perdere alcuna giocata, anche se insignificante, sebbene da metà aprile in poi trovare un’azione priva di importanza è complicato, tanto quanto scovare petrolio nel vostro giardino.
Ed è perché credo che la bellezza del basket risieda nella sua completezza, trovo osceno minimizzare analisi tattiche, e previsioni, in semplici duelli Tizio contro Caio, come, ahinoi, fanno diversi giornalisti pur di portare a termine il loro compito in fretta. Ritengo aberrante sminuire una squadra definendola “di Sempronio”.
Pat Riley, uomo che mastica basket da una vita, ha instaurato nei Miami Heat del titolo 2006 il concetto “fifteen strong”. In fatti in quella squadra, nonostante figurassero a roster Shaquille O’Neal e Dwyane Wade, la chiave per la famosa rimonta dal 2 a 0 iniziale nelle Finals contro Dallas è stata il supporting cast, composto da Alonzo Mourning, Jason Williams, James Posey, Gary Payton, Antonie Walker e Udonis Haslem.
Ora, cinque anni dopo sempre nel South Florida, Erik Spoelstra, attuale capo allenatore e assistente di quegli Heat campioni, deve poter nutrire fiducia nel contorno della team, e non solo nel piatto principale, se vuole ricondurre Miami all’anello.
Nella NBA, come in qualsiasi altro rettangolo di gioco, avere diverse opzioni da affiancare a una stella è fondamentale, lo è sempre stato. L’Ohio ha dovuto capire ciò sulla sua pelle, perdendo l’uomo che aveva fatto uscire Cleveland dalla mediocrità, sportiva almeno.
Poco importa se spot, video o cartelloni pubblicitari proclamanti la sfida Kobe-LeBron o Durant-Howard ci indicano quotidianamente il contrario. Chi segue il basket con un minimo di coscienza avrà senz’altro capito che senza un valido quarto, e da lì a scorrere, giocatore puoi solo raccogliere cocenti delusioni quando conta.raccogliere cocenti delusioni quando conta.
L’esealtazione dei duelli in campo fra fuoriclasse serve a far guadagnare soldi e notorietà a chi trasmette la partita, non serve per vincere le partite, o addirittura i Playoffs.
Lakers, Spurs e Celtics, che non a caso si sono spartiti dieci degli ultimi dodici Larry O’Brien Trophy (!), spesso state elogiati per il contributo che la loro panchina porta; al contrario la dirigenza dei Knicks continua ad accusare colpi mediatici a causa della produzione dei giocatori affiancati al duo Anthony-Stoudemire.
-21.3 non è il numero di gradi che si raggiunge in certe parti dell’anno in certe parti della Terra, ma il plus/minus dei Magic contro Atlanta quando Jason Collins era in campo, durante gli incontri di questa stagione; inoltre il team di Stan Van Gundy ha tirato con il 18% da tre in queste situazioni. Ora la domanda che sorge non è chi sia Jason Collins ma come mai un rude role player da 2 punti e 2.1 rimbalzi a partita di media possa influire così tanto su una prestazione di una squadra di alto livello come Orlando. La risposta è semplice: Collins impedisce, marcando Howard senza bisogno di raddoppi e dunque mettendo in condizione i suoi compagni di rimanere con i loro uomini, triple ad alta percentuale, fondamentali nel sistema di Orlando, a Jameer Nelson, JJ Redick, Jason Richardon, Ryan Anderson,Hedo Turkoglu e Gilbert Arenas. Collins strappa agli Hawks 1 milione e 352mila dollari, e non gode di unal reputazione da All-Star eppure incarna la speranza cui Atlanta si aggrappa per passare il primo turno.
Stesso discorso vale per Kyle Korver, il giocatore del Nebraska viene pagato 5 milioni a stagione dai Bulls per aggiungere il tiro da tre a una squadra che altrimenti non avrebbe tiratori affidabili. Anche in questo caso le statistiche sono significative: un quintetto Rose-Korver-Deng-Boozer-Noah ha segnato, per cento possessi, 122.7 punti, un dato straordinario e impressionante. Questo perché le difese, con Korver in campo, vengono punite dalle triple di quest’ulimo, ogni volta che decidono di chiudersi sulle penetrazioni di Rose o che raddoppiano Boozer in post basso.
La Storia, ancora una volta, insegna molto; Robert Horry ha vinto più titoli di Michael Jordan, con tre società diverse, grazie alla difesa che portava alla squadra per la quale calcava il parquet, senza aver mai preso parte a un singolo All-Star Game.
I New York Knicks hanno battuto i Los Angeles Lakers in gara 7 delle finali NBA 1970 sebbene il loro miglior giocatore, Willis Reed, fosse infortunato. Questo è potuto accadere grazie ai giocatori che si sono divisi le responsabilità lasciate vacanti e grazie ad un enorme sforzo corale.
Tra le prime sei panchine per punti nella Association del 2011, ben quattro (Dallas, Philadelphia, Denver e San Antonio) hanno preso parte alla postseason.
Nella regular season 2007/2008 i futuri campioni Boston Celtics, grazie ad un quintetto formato da Eddie House, Ray Allen, Tony Allen, James Posey e Glen Davis, hanno segnato 121.7 punti ogni 100 possessi concenendone solamente 88.07, strabiliante. Il segreto, e la fortuna, di quella squadra fu una semplice parola, che però racchiude tuttora un significato forte e indispensabile ai biancoverdi per vincere: ubuntu.
Se siete assidui utenti della rete la parola utilizzata da Rivers e staff vi suonerà familiare perché è il nome di un sistema operativo, ma se siete persone smaliziate saprete che “ubuntu” deriva dalla lingua Bantu e che ha un signficato vicino al nostro “umanità attraverso gli altri”. Il termine è stato scelto nel 2007 proprio per inculcare agli Original Big Three il bisogno di avere compagni affidabili, su cui poter, e dover, contare. E il piano sembra essere riuscito.
Ogni anno trenta General Manager si muovono per mettere in grado i loro migliori giocatori di vincere acquistando persone con esperienza, mentalità lavorativa, decidonoego limitato, e possibilmente con qualcosa che sappiano fare alla perfezione, sia essa difendere, prendere rimbalzi, buttare la palla nel cesto o altri aspetti del gioco.
Si parlava di concetti come “fifteen strong” o “ubuntu”; non uno, non due, ma quindici giocatori devono prendere parte ad un progetto per vincere.
Queste formule, se ce n’è una, sono basilari linee guida per qualsiasi franchigia pensante alla vittoria.
D’altronde la pallacanestro affascina perché ci sono quindici uomini in calzoni disposti a sacrificarsi per l’obiettivo; e tutti sanno che ognuno di quei quindici omaccioni influisce sul rendimento della squadra.
Filed under: Breakdown