Alla fine, ha gettato la maschera: il premier Monti si candida per il bis, con il sostegno delle forze centriste. "Cambiare l'Italia, riformare l'Europa, agenda per un impegno comune" è lo slogan con cui si apre la nuovaAgenda Monti, resa pubblica in rete, che promette novità anche in tema di lavoro.
Novità che, secondo il professore, devono, però, seguire la strada già tracciata dallariforma Fornero, definita “un passo avanti fondamentale del nostro Paese” (nonostante la nuova legge sia già causa di un abbassamento delle assunzioni e di una diminuzione dei rinnovi dei contratti a termine), ma da migliorare, apportandovi delle correzioni.
Il responsabile di queste correzioni, intanto, potrebbe già avere un nome e un cognome: il senatore Pietro Ichino, ex del Pd, dopo la sconfitta di Renzi alle primarie del centrosinistra e fautore della flexicurity (si vocifera che sia stato addirittura lo stesso Ichino a redigere l’Agenda del professore). Aspettiamoci, quindi, dei cambiamenti futuri alla riforma Fornero.
Come si agirà nel concreto, però, ancora non si sa, ma nel suo manifesto politico e durante le sue apparizioni su tv e giornali, il premier Monti già indica la strada da seguire: innanzitutto, drastica semplificazione della normativa sul lavoro che, tradotto, dovrebbe significare l’abolizione di molti tipi di contratto.
Sarebbe cosa buona e giusta, dal momento che proprio la grande varietà di contratti atempo determinato è una delle basi del precariato, se non fosse che sull’Agenda si legge che l’obiettivo è quello di “superare il dualismo tra lavoratori protetti e non”. Detta dalle stesse persone che hanno sostenuto la Fornero, che ha eliminato l’Articolo 18, precarizzando tutti quanti, la frase suona un po’ minacciosa.
Ci si prepara, quindi, ad una nuova stretta su diritti e salari dei lavoratori? Sembra proprio di sì, perché l’Agenda vuol dar maggior forza alla contrattazione collettiva di prossimità, cioè ai contratti stipulati direttamente tra sindacati e imprese, a livello locale o addirittura aziendale,
In teoria, è un’ottima cosa, perché questo tipo di contrattazione dovrebbe garantire più occupazione; maggiore qualità dei contratti; più coinvolgimento dei lavoratori negli investimenti, nell’organizzazione di lavoro e produzione e nella gestione delle crisi aziendali e occupazionali; ma cosa succederebbe nel caso in cui qualche azienda dicesse “se non accettate meno diritti e stipendi più bassi, chiudiamo la baracca e spostiamo tutto in Cina o Serbia”? Chi vigilerà in caso di abusi?
Un esempio lampante di abuso è il caso Fiat e se un cosa del genere è stata permessa a Marchionne (cioè meno diritti e più ore di lavoro e straordinari a parità stipendio, dietro la minaccia di andarsene a Detroit), perchè impedirla ad altri?
Un ultimo appunto: il buon professore sostiene che è necessario diminuire la pressione fiscale su salari e imprese. Anche questa è un'ottima idea, se non fosse una semplice sparata elettorale (detta poi da uno che si vanta della sua serietà): se, infatti, l'Italia ha ormai raggiunto il tetto dei 2.000 miliardi € di debito pubblico, se la grande evasione fiscale non è stata minimamente scalfita, se la tassazione sui grandi partimoni e sullerendite finanziarie è una chimera, se la lotta a sprechi e privilegi è stata solo di facciata e se gli investimenti nella crescita sono stati minimi, dove trovare REALISTICAMENTE i soldi per tagliare le tasse?
Per il momento, quindi, nell'Agenda non sembra esserci molto spazio per il lavoro, realisticamente inteso.