Sapete cosa mi infastidisce? L’uso spropositato delle parole.
Tempo addietro ho scritto riguardo a registri linguistici e gerghi, questa volta però mi riferisco ad altro. Vedete, trovo perfino naturale che una generazione abusi di una certa parola alla moda in forma esclamativa, come fanno fin dalla gioventù i miei genitori e i loro coetanei con pazzesco! o assurdo!, i miei amici con allucinante! (qui niente affatto sinonimo diabbacinante!) o le nuove leve griffate e à la page, cioè i supermen e le supergirls cocchi e cocche di mamma e di papà sempre più reattivi a spumante, cola e frittura – neanche fossero kryptonite! –, con il loro ricco repertorio lessicale da tossici incalliti di periferia ‘completamente scioccati’ mentre si suggeriscono vicendevolmente ‘flash’ da ‘delirio’ o ‘da panico’ che ‘no, non si può capire!’.
Beh! Io non solo capisco, ma accetto, assorbo e riuso in modo più o meno consapevole e divertito questo miscuglio linguistico. Vi dirò di più, riesco a digerire senza difficoltà anche paroloni, magniloquenze, retoriche ed enfasi varie; mi piacciono persino le disquisizioni pedanti che si spingono ben al di là della soglia del ridicolo.
Il punto è un altro: l’uso indiscriminato delle iperboli. Non solo e non tanto nella parlata, quanto piuttosto in opere con pretese velleitarie di letterarietà. Che si tratti di una questione squisitamente stilistica? Può darsi. Cosa succede però se dopo aver usato parole succulente per descrivere il mio piatto ben riuscito di spaghetti alla carbonara, sparando termini quali fantastico, favoloso, incredibile, pazzesco, magnifico, stupendo, meraviglioso, indimenticabile e altri ‘sfavillanti’ aggettivi “iper-super-mega-maxidescrittivi” delle più ordinarie e trite occorrenze della vita quotidiana, avessi l’inesorabile necessità di descrivere sinteticamente ed efficacemente un evento, un oggetto, una persona o – sia pure – una pietanza veramente straordinari o eccezionali? Che si fa? Si usano nuovamente gli “amici” di sempre? Non sarà certo come averli adoperati per la prima volta. Non avranno più l’effetto sperato sulle orecchie e nella mente di chi è stato già da un bel pezzo tramortito da quelle stesse roboanti espressioni così cariche, eppure così vuote di significato, deprezzate e svalutate dagli appariscenti e rumorosi messaggi pubblicitari dedicati ai più inutili beni di consumo o stiracchiate e distorte da presentatori e banditori di ogni fatta.
È la morale di A lupo! A lupo! e dei «Ti amo» in offerta speciale? Non solo. Ancora una volta è una questione di scelta. Di optare per la parola giusta al momento giusto. La “predica” potrebbe valere anche per il turpiloquio quasi costante che fa tanto ‘fichi’ e ‘trendy’ giovani e meno giovani, splendidi e divertenti, espediente che però – a mio giudizio – maschera una preoccupante povertà lessicale. La parolaccia, si sa, fa ridere. Crea baruffe o sdrammatizza. E, soprattutto, la parolaccia è jolly. Sta per tutto e su tutto. Specialmente se non appartiene alla nostra cultura. Al Sud gli amici, sempre più spesso, si mandano in Paesi ameni con espressioni lombarde come se niente fosse e al Nord l’organo riproduttivo maschile denominato alla siciliana suona in modo meno serioso di quanto non faccia con la lettera C. Quanto sono bacchettona! E che giri di parole per non scrivere cagare, cazzo, minchia, vaffanculo, coglione e via di seguito!
Scherzi a parte, sulle parole la penso esattamente come sulla musica, le passioni e gli stati d’animo, vale a dire che servono tutte, in caso contrario si estinguono e spesso è un peccato che questo accada. Una parola scelta con attenzione e utilizzata all’uopo può dire più di infinite altre, specie se queste ultime vengono estratte a sorte e mescolate a casaccio. Effetto ‘straordinario’, magari anche migliore di quello desiderato, ma di certo altro, diverso. Viva la sperimentazione! Purché sia tale e non un colpo di fortuna privo di merito e di discernimento. Dunque, sì alle iperboli per eccesso o per difetto purché mirate e misurate. Questo è solo uno dei tanti aspetti dell’opera di setaccio, che può avvenire già a monte, nella prima stesura di un testo, ma che in maniera più estesa fa parte delle parecchie operazioni di revisione e ‘risciacquo’ assodate e care anche ai nomi più altisonanti della letteratura.
Infine, quanto al mio incaponimento circa l’esagerato impiego del linguaggio iperbolico, credo sia addebitabile al fatto che, secondo la sottoscritta, la bellezza – anche in letteratura – abbia a che vedere in primo luogo con la qualità e solo secondariamente – o addirittura per nulla – con la quantità. Sebbene suoni simile a una contraddizione in termini, affermo il mio dissenso all’iperbolico uso delle iperboli. Meno male che non simpatizzo neanche per le ridondanze!