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C'è da dire che il gusto per il giallo lo nutrii con le avvincenti storie della Signora Fletcher, storie che alla tenerissima età di 7 anni mi sembravano oltremodo coraggiose. E poi come restare indifferenti di fronte al messaggio rivoluzionario che la Sig.ra in giallo ha esportato in tutto il mondo: va bene il femminismo scopereccio e abortista, ma ricordiamoci anche di simpatiche e arzille vecchiette, forti ed economicamente indipendenti dal marito pensionato, o più spesso, morto.
Poi c'è stato Poirot, con la scoperta della lettura, e Maigret, con la scoperta della letteratura. Non che Sherlock Holmes lo intenda ignorare, ma ancora non riesco a perdonare Mr Madonna per quel film.
Quindi temprata dalla delicata eleganza dei grandi giallisti europei (definizione che a Simenon va decisamente stretta) ed imbevuta dal recentissimo noir californiano, mi ritenni pronta per Raymond Chandler e il suo Philip Marlowe. Senza Chandler non avremmo mai avuto Winslow, Landsale, Bunker ed Ellroy. Senza Chandler il passaggio dal giallo all'europea al noir americano sarebbe stato troppo azzardato, per raccogliere ampi consensi. Chandler è come la danza classica, la base di tutto ciò che viene dopo. E il suo Philip Marlowe è tanto umano da sembrare vero. Poirot e compagnia (escludendo Maigret) si limitavano a presenziare sul palco delle macchiette, con le loro note e peculiari caratteristiche, utili quel tanto per non confonderli tra di loro. Philip Marlowe è un uomo onesto e i personaggi che gli si muovono intorno odorano del grande romanzo elitario, senza scontargli lo spessore umano, a causa di ambientazioni più spartane. "Il lungo addio" non è solo un libro giallo, è un libro dai buoni sentimenti, non perché prendere il cattivo sia l'unica cosa giusta da fare, ma perché Chandler ci regala una morale più profonda di qualsiasi topos letterario. Dietro ai romanzi noir c'è un'intera mitologia, sottovalutata e volutamente nascosta dal fascismo culturale. Che leggano questo libro prima di farcirsi la bocca di cazzate. B.
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