(segue da “il male capitolo 0″)
nella prima metà degli anni ’50 l’architetto austriaco Victor Gruen progetta una grande struttura dove sono contenuti tanti negozi con vetrine rivolte verso l’interno, con parcheggi per le auto dei clienti e con l’aria condizionata. il centro commerciale doveva essere il luogo in cui ogni persona si sentisse a casa propria ma non si comportasse come se davvero lo fosse.
non dubito dei buoni propositi iniziali ma dopo sessant’anni credo che dei primi centri commerciali sia rimasto solo il soffitto, per di più credo che il ruolo dell’architetto nella progettazione della struttura sia stato ridotto a quello di un tappezziere in un hotel, al suo posto ora ci sono una dozzina di esperti di marketing.
questi luoghi sono identici fra loro in tutto, hanno la giusta armonia di luci, musica e aria condizionata e sopratutto scavalcano con una certa eleganza le nostre necessità riuscendo (sempre) a farci desiderare qualcosa che non abbiamo bisogno di comprare.
questi luoghi hanno distrutto e continuano a distruggere tutte le piccole attività dei paesi dove sono edificati: è stato calcolato che circa l’80% del flusso economico creato da un centro commerciale era già esistente anche prima. un flusso di cui facciamo parte anche noi e tutti quelli che un giorno compravano le scarpe nella via principale o che facevano una passeggiata pomeridiana nel borgo, lo stesso borgo che ora di gente ne vede un po’ il sabato sera e la domenica, fra vent’anni sarà in parte fatiscente e che fra trenta sarà sottoposto ad “un’opera di riqualifica” ovvero alla ridestinazione dei locali per a maxi-store.
questi luoghi sono il male perchè come ha scritto Marc Augè sono diventati dei non-luoghi, non hanno storia nè relazioni sociali, non sono posti dove possiamo dire di avere qualche ricordo (che sia positivo o negativo) ed assomigliano sempre di più a degli aereoporti dove la gente deve transitare nella maniera più efficiente possibile e poi andare via per lasciare il posto il giorno seguente ad un altro flusso di nuovi consumatori.
il male è nascosto fra i tavolini dei ristoranti etnici dell’Oriocenter a Bergamo, uno in coda all’altro, dove i nostri amici anglo-tedesco-america-franco-italiani hanno avuto la possibilità di mangiare in 10 metri libanese cinese o turco ma non di gustare della polenta taragna o dei casoncelli ripieni. stiamo dimenticando la nostra cultura adattandoci ad un’unico omogeneo (e più commercializzabile) modo di vivere.
il futuro lo stanno già sperimentando nella corea del sud dove la brittanica Tesco ha aperto in una metropolitana il primo supermercato virtuale del mondo: muniti di applicazione Iphone i clienti possono scegliere i prodotti da acquistare che saranno poi consegnati direttamente a casa. A pensarci bene l’idea conviene sotto tutti gli aspetti, fino a quando devo decidere fra un coccolino al lampone o alla banana.
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