Per Stanislavskij la recitazione coinvolge processi fisici e psicologici.
Da una parte, l’attore deve avere una padronanza assoluta del proprio corpo e una capacità di concentrazione, migliorabile attraverso esercizi specifici; dall’altra deve calarsi nel personaggio partendo dall’analisi di “circostanze date“, indicazioni che emergono nel testo, nel contesto, nelle direttive del regista e nella modalità di messa in scena dello spettacolo.
L’obiettivo del metodo è la piena comprensione del personaggio, alla quale Stanislavskij somma un processo che – sulla verità della psicanalisi di Freud – vede l’attore mettere in gioco la propria interiorità.
Tale processo si sviluppa attraverso la “memoria emotiva” da cui l’attore dovrà ricercare il proprio vissuto personale di esperienze simili a quelle del personaggio, per poi “riviverle” sfruttando gli stimoli provenienti dalla rappresentazione.
Per questo si parla di “primo Stanislavskij” per cui il processo di “reviviscenza” è un percorso che avviene dall’interno all’esterno, e di “secondo Stanislavskij” per cui la “memoria del corpo” innesca la memoria dell’anima attraverso un percorso inverso, dall’esterno all’interno.
Il 14 ottobre del 1898 infatti avrebbero inaugurato insieme il famoso Teatro d’Arte di Mosca, in cui Dancenko si occupava dell’amministrazione, della scelta e dell’adattamento dei testi e Stanislavskij della messa in scena.
Nel 1906 Stanislavskij diede alle stampe degli Stati Uniti la sua autobiografia “La mia vita nell’arte“, dove successivamente venne fondata una scuola di recitazione basata sui principi del suo sistema-teorico frutto del lavoro di una vita che nel 1927 sarà pubblicato nel capitale “Il lavoro dell’attore su se stesso“, il primo di una coppia di saggi di cui il secondo “Il lavoro dell’attore sul personaggio” sarebbe rimasto incompiuto.