Prendete un personaggio che incarna la classe media, magari un uomo sulla cinquantina che è appena tornato a casa sporco di grasso dopo una faticosa giornata di lavoro in officina. Ora mettete insieme a lui una donna, sua moglie, e cominciate a farli dialogare in maniera concisa e colloquiale circa un problema comune, un fatto assolutamente non eccezionale: potrebbe essersi rotto all’improvviso un elettrodomestico, oppure potrebbe essere arrivato il nuovo sollecito della bolletta del gas, l’ultimo, quello che intima di pagare altrimenti via, la fornitura verrà interrotta. Raccontate la storia senza molti orpelli, siate parsimoniosi con gli avverbi e rinunciate alle descrizioni dettagliate degli ambienti e dei protagonisti. Bandite infine le introspezioni psicologiche, eppure fate in modo che, attraverso un linguaggio essenziale, affiorino paure, dubbi, domande esistenziali. Concentrate il tutto nello spazio di qualche pagina, stando attenti a prendere una direzione precisa ma allo stesso tempo a non offrire tante risposte. Mettetevi ora dalla parte del lettore, che dovrà sentirsi catturato dalle singole frasi, anche se semplici, da parole che gli capita di sentire ogni giorno, da una narrazione scarna e diretta. Ecco, ciò che ne risulta potrebbe essere l’esempio di un racconto minimalista. E quando si parla di letteratura minimalista, il primo che viene in mente è senz’altro Raymond Carver, anche se lui non si sentì mai di inquadrare se stesso in quella particolare corrente letteraria. Anzi, come la moglie rivelò pochi anni fa in un’intervista, il risultato finale delle sue opere era spesso il frutto di tagli consistenti operati dagli editor, che riducevano gli scritti originali a quella sobrietà divenuta tipica di Carver negli anni a seguire.
Se già certe opere di Ezra Pound (nella poesia) e di Ernest Hemingway (nella narrativa) potevano considerarsi minimaliste, è proprio con Carver che questa etichetta comincia a essere utilizzata, per poi estendersi, durante gli anni 80, a scrittori come Jay McInerney (che esordì con Le mille luci di New York nel 1984) e Bret Easton Ellis (Meno di zero il primo romanzo del 1985, ma conosciuto soprattutto per American Psycho, 1991). Negli anni 90 invece è Chuck Palahniuk, grazie al suo stile dall’impatto immediato, quasi brutale nella sua crudezza, a imporsi all’attenzione generale con Fight club (1996).
Tra le protagoniste femminili, ricordiamo invece Ann Beattie (il suo romanzo d’esordio Gelide scene d’inverno, del 1976, è stato ristampato in Italia nel 2009), Grace Paley (non molto prolifica, perché di lei rimangono poco più di quaranta racconti, ma tutti ritenuti piccoli capolavori) e Amy Hempel (tutti i suoi racconti sono stati pubblicati nel nostro paese in un unico volume del 2009, dal titolo Ragioni per vivere).
E oggi? In che direzione sta andando il minimalismo nella letteratura? Analizzando la scrittura di molti nuovi autori di successo, sembra che la tendenza attuale si discosti in maniera decisa dai canoni minimalisti. Anzi, si è assistito a una sorta di rigetto nei confronti di quella corrente, proponendo linguaggi sempre meno essenziali, ricercati, talvolta impressionistici, tesi a causare un shock nel lettore. Infatti, se da un lato il minimalismo ha rappresentato una straordinaria innovazione in tutti i campi artistici, dall’altro ha dato adito in alcuni casi a un facile spirito di emulazione, oppure è stato sfruttato per celare incapacità produttive o crisi creative. Dopo l’ondata degli autori talentuosi appena citati, dotati di uno stile proprio e ben identificabile, pare dunque che il minimalismo sia stato spesso adottato più per la difficoltà a scrivere in altri modi che per una consapevole scelta stilistica. Forse oggi non è più tempo di minimalismo. O forse c’è soltanto bisogno di un altro Carver.
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