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Il mondo di ieri (Zweig)

Creato il 30 marzo 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua

Alcuni di voi mi hanno più volte tentato con il nome di Stephan Zweig, in particolare reiterando l'entusiasmo per Mendel dei libri, e, nel frattempo, la visione di The Grand Budapest Hotel ha riportato alla mia attenzione il nome dell'autore che ne ha ispirato le atmosfere. Non potevo che cadere in tentazione, entrando in libreria (un fantastico negozio che ho appena scoperto e che -c'è da scommetterci - diventerà il mio nuovo rifugio libroso) a cercare Mendel. Il volume in questione non era disponibile, ma, in attesa dell'ordine, la titolare della libreria mi ha suggerito Il mondo di ieri, che ho portato a casa senza esitazione; nel frattempo, mentre il libro attendeva buono buono sul comodino il proprio turno, la recensione di Appuntario ha fatto crescere la curiosità. E così, fra un viaggio in treno e l'altro, ho incontrato Stefan Zweig.

Il mondo di ieri (Zweig)Sottotitolato Ricordi di un Europeo, Il mondo di ieri si presenta come la biografia di un uomo vissuto a cavallo fra due realtà completamente diverse e, per molti aspetti, opposte: da un lato gli ultimi decenni del XIX secolo, con il loro entusiasmo per il progresso, il fervore culturale, la bellezza e la vivacità della Belle Époque, il successo dei teatri, dall'altra il Novecento, con il vertiginoso crollo di quegli ideali innescatosi con la prima Guerra mondiale. Ma la dialettica non è solo storica: a Zweig interessano anche due mondi sociali ed etici completamente diversi, che navigano verso la libertà e l'autonomia per i giovani, abbandonando la rigidità della morale dei padri.

Il mio oggi è così differente dal mio ieri, le mie ascese e i miei crolli, che talvolta mi sembra di aver vissuto non una, ma molteplici esistenze totalmente staccate e diverse. [...] Fra il nostro oggi, il nostro ieri e il nostro altroieri tutti i ponti sono crollati.

Definire questo libro autobiografia è forse riduttivo, poiché l'autore stesso ricorda, nell'introduzione: "L'epoca offre le immagini e io vi aggiungo le didascalie e non narrerò tanto il destino di me solo, quanto quello di tutta una generazione, della nostra inconfondibile generazione, la quale forse più di ogni altra nel corso della storia è stata gravata di eventi". Il mondo di ieri è, quindi, una biografia collettiva, nella quale l'autore non è che uno dei protagonisti che in sé raccoglie le esperienze comuni a molti dei suoi contemporanei. Fra le sue pagine scorrono esperienze di ogni genere, da quelle fra i banchi di scuola a quelle della brillante vita culturale viennese, passando per i tumulti della guerra e le discriminazioni razziali: la vita personale e culturale di Stefan Zweig si intreccia alla Storia, recandone i segni devastanti, al punto che, con l'affermazione del regime hitleriano, egli è vittima di un'emarginazione civile sia in quanto autore ritenuto anti-tedesco (soprattutto dopo l'annessione dell'Austria al Reich) sia in quanto ebreo. Ecco, dunque, che alla sua esperienza di viaggiatore entusiasta (nel suo cuore si distingue l'affetto per Parigi) si accompagna fatalmente quella dell' esule, sicché il suo cosmopolitismo dichiarato si trova a fare i conti con l'amarezza della perdita delle radici.
In tutta la narrazione spiccano non solo le riflessioni culturali, filosofiche e letterarie di Zweig, ma i dati che ricostruiscono la sua carriera, dagli esordi con un libricino che arriva fin nelle mani di Rainer Maria Rilke, passando per le numerose traduzione, i romanzi e le opere teatrali. Eppure non sono i libri i più grandi interlocutori di Zweig, i coprotagonisti de Il mondo di ieri: l'esperienza descritta con maggior intensità è quella delle amicizie, dei contatti con i grandi personaggi del suo tempo, degli incontri che lasciano noi persone comuni a bocca aperta, come di fronte ad un'enorme piazza in cui si incontrino James Joyce, Auguste Rodin, Hugo Von Homannsthal, Richard Strauss, Luigi Pirandello e molti altri protagonisti della storia e della cultura a cavallo fra i due secoli.

Lì, come sempre in Francia, compresi quanta energia una letteratura rivolta veramente alla verità possa restituire al suo popolo, giacché, prima di averlo veduto con gli occhi, tutto di Parigi mi era in fondo familiare già attraverso l'arte dei poeti, dei romanzieri, degli storici e dei cronisti del costume. L'incontro fece rivivere quelle immagini, la visione fisica non fu che un riconoscere, costituì il piacere di quella greca anagnosis che Aristotele esalta come il più grande e il più misterioso fra i godimenti artistici. Tuttavia non si può conoscere un popolo o una città nella sua ultima essenza più riposta attraverso i suoi libri e neppure con la visita più accurata, ma soltanto sempre per il tramite dei suoi personaggi migliori. Soltanto l'amicizia con i vivi ci permette di intuire i veri rapporti fra popolo e paese; ogni osservazione dall'esterno rimane un'immagine prematura e inesatta.

Le pagine di Zweig sono animate da un'enorme fiducia nei confronti delle capacità dell'uomo di produrre bellezza, arte, legami solidi all'insegna della stima, soprattutto negli accorati momenti in cui l'autore descrive la sua Vienna, cornice piena di stimoli per un giovane divoratore di libri e di poesie, culla ideale di imprese grandiose, anche se ormai consegnata al destino di un impero che va verso l'estinzione, nel clima della Finis Austriae. Questo entusiasmo, però, si spegne a metà del libro, quando l'ottimismo è destinato ad essere picconato dall'odio che scuote l'Europa (non a caso il testo si interrompe con l'invasione della Polonia) e che amareggerà l'esistenza di Stefan Sweig fino al suicidio che consumerà assieme alla seconda moglie nel 1942.

Mai ho tanto amato la nostra vecchia terra come in quegli ultimi anni prima della guerra, mai ho tanto sperato nell'Europa, mai ho tanto creduto nel suo futuro come in quegli anni in cui ci sembrava di assistere a una nuova aurora. Era invece già l'igneo riflesso dell'enorme incendio che s'avvicinava.

Lo scoppio della guerra è descritto in maniera quasi straniata, dalle tiepide razioni del popolo austriaco alla notizia dell' assassinio di Francesco Ferdinando alla smania collettiva di imprese eroiche che si diffonde con la chiamata alle armi: anche il primo conflitto mondiale è un segno di una frattura fra due mondi, quello di retaggio eroico e romantico offerto dall'Ottocento e quello delle carneficine del nuovo secolo, che presto si sarebbero rivelate come la più pesante sanzione del fallimento di un "castello di sogni". Crollati quegli ideali e quelle speranze di grandezza, la seconda strage, preparata da anni di ostilità striscianti, sarà per gli uomini del mondo di oggi uno scenario ben diverso, quello di un trauma dal quale lo stesso Zweig non si riprenderà più.

E che ne sapevano del resto della guerra le masse nel 1914, dopo quasi mezzo secolo di pace? Non la conoscevano, non ci avevano quasi mai pensato. Appartenevano alla leggenda e la lontananza l'aveva resa eroica e romantica. [...] Una rapida corsa nel romanticismo, un'avventura impetuosa e virile, ecco come si presentava la guerra nel 1914 all'immaginazione dell'uomo semplice. [...] La generazione del 1939 invece conosceva la guerra. Non si illudeva più, sapeva ch essa non era romantica, ma barbara. Sapeva che sarebbe durata anni e anni, rubando un insostituibile brano di vita.

Il mondo di ieri è una straordinaria panoramica attraverso uno dei processi di mutamento più radicali e rapidi della storia e ne registra puntualmente i particolari, cucendoli in una trama omogenea in cui la storia di Stefan Zweig si raccorda perfettamente a quella di milioni di Europei. La lettura è scorrevole, piacevole e ricca di spunti, soprattutto nelle pagine dedicate all'epoca d'oro dell'Austria, mentre l'amarezza si fa progressivamente largo nella seconda parte del libro, offrendoci il ritratto di un autore che, in luogo delle speranze nutrite in giovinezza, si vede condannato ad un destino di esilio, incomprensione e di ricordi che non possono più essere altro che il frutto serbato dalla memoria. Un libro autobiografico ed eterobiografico, un validissimo documento di storia civile, culturale e umana.

Se non si ha la propria terra sotto i piedi - anche questo però deve essere sperimentato per essere compreso - ci si tiene meno diritti, si perde sicurezza, si diventa diffidenti verso se stessi. Non esito a confessare che dal giorno in cui dovetti vivere con documenti o con passaporti effettivamente stranieri non mi sono più sentito completamente legato a me stesso. È rimasta per sempre distrutta una parte della mia naturale identità con il mio io originario. Sono divenuto molto più riservato di quanto sia nella mia indole; io, il cosmopolita di un giorno, ho oggi incessantemente l'impressione di dover render grazie per ogni boccata d'aria che respirando tolgo a un altro popolo. Si capisce che a mente lucida riconosco l'assurdità di simili fisime, ma quando mai la ragione può qualcosa contro un sentimento istintivo? Poco mi è servito avere educato per quasi mezzo secolo il mio cuore a battere da cosmopolita, da citoyen du monde: il giorno in cui perdetti il mio passaporto, scopersi a cinquantott'anni che perdendo la patria si perde ben più che un circoscritto pezzo di terra.

C.M.


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