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La “via catalana” all’indipendenza ha preso piede. Centinaia di migliaia di persone si sono riunite a Barcellona, formando una catena umana di 400 chilometri per celebrare la Diada, la festa nazionale della Catalogna che cade l’11 settembre. La parola ‘Independència!’ guiderà i manifestanti nella richiesta di un referendum per la secessione da Madrid.
Chartier aveva ragione: la storia è un grande presente e mai solamente un passato. Fino a dieci anni fa il “nazionalismo catalano”, erede e continuatore di rivendicazioni sorte nel XIX secolo, si basava esclusivamente su fattori culturali. Le argomentazioni in suo favore si immergevano nel romanticismo: la Catalogna era una “nazione” diversa dalla Spagna, principalmente per motivi di lingua, cultura, storia e società. Ma queste nobili giustificazioni non hanno mai convinto smisuratamente la maggioranza della popolazione catalana. Tanto è vero che, durante il secolo scorso, le speculazioni teoriche sui fattori culturali non hanno mai attecchito fin troppo gli animi degli indipendentisti.
Di converso, i partiti separatisti hanno adottato un altro modello destinato ad operare come leit-motiv collettivo: si tratta del nazionalismo economico, i cui sistemi dottrinali sono riusciti a trovare terreno fertile nella società catalana. Questo tipo di indipendentismo sostiene che la comunità autonoma della Catalogna sia finanziariamente discriminata rispetto alle altre regioni e che il governo spagnolo non stia spendendo abbastanza per valorizzarla. Non pochi economisti hanno sottolineato l’incoerenza di questo approccio; tuttavia, si tratta di un catalizzatore politico che è riuscito a propagarsi in maniera inoppugnabile nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica catalana. Lo slogan España nos ROBA (“La Spagna ci sta derubando” ) ricorda non troppo vagamente gli echi del “Roma ladrona” utilizzato dalla Lega Nord in Italia.
Qui habet aures audiendi audiat, il movimento indipendentista ha praticamente raddoppiato la sua percentuale d’iscritti nell’arco dell’ultimo decennio (in aumento , secondo i sondaggi, dal 15-20 % al 30-40% ) e molti catalani ritengono che l’appartenenza alla Spagna rappresenti un intralcio alla piena realizzazione economica della regione. Ictu oculi, il nazionalismo catalano ha guadagnato un ampio seguito proprio grazie alle rivendicazioni econo
miche, che in passato facevano perno sulla richiesta di un sistema di finanziamento più favorevole, strutturato ad hoc per la Catalogna, rispetto alle altre regioni autonome. Preso atto del rifiuto da parte di Madrid di implementare simili provvedimenti, le richieste d’indipendentismo si sono formate sulle spoglie dell’identità culturale e delle rivendicazioni economiche, unendo le due cause in un’unica istanza: il nazionalismo.La logica basata sull’identità resta in ogni caso incontrovertibile. Prendiamone atto. In rapporto al principio dell’autodeterminazione dei popoli, i catalani fruiscono di un’impronta culturale e linguistica evidente, a cui rispondono valori identitari caratteristici. Detto ciò, il nazionalismo economico – che non si basa su quid metafisici né tantomeno su emozioni collettive, bensì su dati empiricamente constatabili – non convince proprio tutti sul piano della praticabilità. La tesi improntata sul presunto squilibrio fiscale sproporzionato, che viene calcolato in base al metodo dei flussi di cassa, riporta la disparità tra ciò che la Catalogna versa allo Stato tramite le entrate fiscali e quello che riceve da Madrid in termini di finanziamento e di spesa diretta. Secondo questo metodo, la Catalogna starebbe perdendo l’equivalente dell’8,5 % del PIL all’anno. Se una siffatta quantità di denaro rimanesse in Catalogna , secondo gli indipendentisti, il risparmio annuo sarebbe enorme.
D’altro canto, molti economisti di fama mondiale bocciano il paradigma indipendentista fin dalla radice: a partire dall’idea che vede la Catalogna come una regione ricca. Il danno economico alla Catalogna si manifesterà quando si dovranno sottrarre dal gettito fiscale i costi di un’ipotetica indipendenza. Dopo la secessione, il costo dei servizi attualmente forniti dal governo nazionale di Madrid si aggiungerà alla spesa pubblica corrente, pesando inevitabilmente sulle casse del “governo catalano autonomo”. Alcuni economisti calcolano un costo dei servizi del 4,3%, a dispetto di un risparmio pubblico del 4,2%. Si creerebbero in tal modo le condizioni per un deficit lampante.
Numeri e percentuali a parte, l’indipendenza attiverebbe dinamiche capaci di indebolire l’intera economia della comunità. La Catalogna resterebbe fuori dall’Unione Europea, almeno per alcuni anni. Ciò comporterà degli effetti devastanti: in primo luogo, sulle sue relazioni con il resto della Spagna (che copre più della metà del commercio catalano) e anche sulle tariffe verso tutti i paesi dell’Unione Europea; elementi che stimoleranno la delocalizzazione delle imprese e il disinvestimento nella regione. Tutto questo a discapito delle entrate fiscali. Inoltre, alla percentuale del debito pubblico catalano (il più cospicuo in Spagna) si aggiungerà la quota di debito spagnolo che spetta alla Catalogna nella divisione dei beni secondo il diritto internazionale. In sostanza, non mancheranno i fattori per una crisi economica della durata di molti anni, che porterà ad una disoccupazione di indici notevoli. E dopo una crisi di queste proporzioni, difficilmente riusciremmo a riconoscere la Catalogna di oggi.
Ipoteticamente, l’idea di una Catalogna indipendente resta per il momento un affascinante modello teorico, vista l’attuale dimensione del volume produttivo della regione, ma potrebbe tradursi in un plateale suicidio economico, dal momento che soltanto dopo molti anni la regione riuscirebbe a ritrovare la sua attuale condizione economica. Ma nel lungo periodo, come scrisse Keynes, siamo tutti morti. Anche se nessuno esclude che alcune persone siano così desiderose di morire per la patria piuttosto che contribuire al suo benessere. In tal caso, sventurata la terra che ha bisogno di eroi.