Magazine Lavoro
La mediazione, soprattutto sui nuovi criteri di rappresentanza, ha mescolato tradizioni associative e tradizioni movimentiste. Le opinioni di chi guarda solo agli iscritti e di chi guarda solo ai lavoratori. Con un metodo spesso usato anche nel passato più glorioso.
Era possibile giungere prima a questo passo? Hanno pesato, certo, le voglie della Grande Cisl, le incertezze della Cgil, ma soprattutto l’ossessione governativa tesa a stabilire solide alleanze con i soggetti sociali più disponibili. L’era degli accordi separati, degli ultimatum è servita così a rendere scarsamente efficaci scioperi e proposte del movimento sindacale. Uniti magari non sempre si vince ma divisi facilmente si perde. E il bilancio “sociale” di questi ultimi anni, se si guarda allo stato del paese (diritti, cassa integrazione, precarietà, partecipazione, livelli salariali) , non può certo dirsi esaltante. Mentre si è alla vigilia di pesanti interventi su pensioni, sanità, pubblico impiego, fisco.
Ora forse si può riprendere il cammino. Non sarà né breve né facile. Anche perché quelle scarne tre pagine dell’intesa del 28 giugno stanno suscitando, specie nella Cgil, contestazioni, nonché richieste di chiarimenti, approfondimenti. Senza ignorare le vibranti denunce di importanti associazioni imprenditoriali come la Confcommercio, tagliate fuori da questa partita. Sarebbe necessario che quel documento, quelle scelte, vivessero nelle assemblee del mondo del lavoro su tutto il territorio. Certo la stagione, il preludio alle vacanze estive, non favorisce un’impegnativa consultazione di massa.
Quella che appare più convincente è la soluzione trovata per stabilire nuove regole di rappresentanza con un calcolo che terrà conto di due versanti, uno derivante dai dati sugli iscritti certificati dall’Inps (e non dalla Confindustria) e uno derivante dai voti raccolti nelle elezioni per la nomina delle rappresentanze sindacali. Una ricetta che ricorda quella adottata nel pubblico impiego e sabotata dal ministro Brunetta. Il tutto misurato dal Cnel, l’organismo dove sono presenti sindacati e imprenditori e che troverà così un nuovo scopo. Un aspetto interessante è dato dalla scelta di un tetto del cinque per cento con una funzione anti-microsindacati. Ovverosia l’organizzazione che non raggiunge almeno il 5 per cento dei consensi non sarà rappresentata. Non a caso tale indicazione ha suscitato apri commenti della Usb (unità di base) e del Fismic.
Un altro punto che promuove inquietudini è quello relativo alla cosiddetta “esigibilità” degli accordi. Tema già centrale nella disputa Fiat. I padroni, insomma, chiedono che quando si firma un accordo esso debba essere rispettato. A dire il vero nel passato chi ha sempre mancato di rispettare gli accordi erano loro (ora saranno sanzionati?). Nel testo approvato non si parla di divieto di sciopero bensì di “tregua sindacale”. Essa comunque riguarderà i sindacati firmatari e non il singolo lavoratore, una formula che pare salvaguardare il diritto costituzionale di sciopero.
E’ così salvo quel contratto nazionale che molti (vedi Fiat) volevano cancellare imboccando la strada dei soli contratti aziendali? L’intesa accelera sulla contrattazione aziendale ma spiega che le materie sulle quali si potrà intervenire saranno specificate, appunto, dal contratto nazionale. Apre, però, anche a sperimentali intese modificative (sparita la parola deroghe). Ad ogni modo tali contratti aziendali per essere applicati dovranno essere sostenuti dalla maggioranza delle rappresentanze sindacali (elette con sistema che potremmo chiamare proporzionale) o da metodi referendari (dove esistono le sole Rsa). Una scelta – il referendum -- che non compare, come vorrebbe la minoranza della Cgil, capeggiata dalla Fiom, come pilastro della vita sindacale. Mentre le segreterie confederali, anche per quanto riguarda gli accordi più generali, preferiscono la strada della consultazione. Immaginandola, crediamo, come la strada di una partecipazione consapevole e anche propositiva e non di un semplice ricorso a un Si o a un No.
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