di Andrea Ferrante
La visita del Primo Ministro Shinzo Abe al sacrario militare Yasukuni di Tokyo, lo scorso dicembre, e le furiose reazioni pubbliche che l’avvenimento ha scatenato – inclusa la condanna da parte del vice Presidente americano Joe Biden – ricordano agli analisti e ai semplici osservatori quanto siano fragili gli equilibri di una regione, l’Asia-Pacifico, perennemente attraversata da rivalità storiche e da dispute territoriali ancora oggi molto lontane da una definizione e che non mancano di avere riflessi significativi sulle dinamiche di potere interne al sistema internazionale. L’infelice decisione di recarsi a commemorare i caduti dell’Impero nipponico (tra i quali figurano numerosi criminali di guerra) non ha certo agevolato una fluidità di rapporti con la Repubblica Popolare Cinese, contribuendo invero ad innalzare le tensioni nell’area in una fase storica estremamente delicata.
Nello stesso periodo, infatti, il governo giapponese ha diffuso il New Defense Program Guidelines (NDPG), documento strategico in cui si afferma che il Paese «si trova a dover affrontare gravi e complesse sfide di sicurezza nazionale», che richiederebbero “sforzi dinamici” in accordo col principio della cooperazione internazionale. La conclusione naturale porta a immaginare uno «sviluppo della struttura delle Forze di Autodifesa (SDF) a fini di deterrenza e di risposta a varie situazioni», tra cui vengono menzionate il notevole incremento delle spese militari del governo cinese e la conseguente crescita esponenziale dell’influenza del “Dragone” nell’area, guardata con profonda preoccupazione a Tokyo [1].
Si può ben comprendere come la sovrapposizione temporale di questi eventi abbia indotto alleati, partner e ostili in egual maniera, a considerare quantomeno sospetta la postura politica giapponese e a diffidare, seppur con toni ed espressioni diverse fra loro, il Primo Ministro Shinzo Abe – resuscitato politicamente dopo i tre anni di interregno del Partito Democratico – dall’usare impropriamente la retorica nazionalista nel tentativo di rigenerare il militarismo nipponico [2].
La polemica si inserisce in un quadro politico-istituzionale ricco di elementi di sostegno all’ipotesi di un Giappone nuovamente pronto a giocare la “partita” del Pacifico in modo risoluto, indipendente e sempre più facente affidamento sulle proprie forze militari, aeree e navali. L’eterna questione di una revisione costituzionale che passi attraverso la modifica dell’art.9 (il quale inibisce il Giappone dal mantenere un esercito in senso stretto e prescrive la non-belligeranza nelle relazioni internazionali), sembra finalmente aver imboccato la direzione di una riforma che, in tempi più o meno lunghi, porterà il governo giapponese a recidere il cordone ombelicale con la Dottrina Yoshida del periodo post-bellico e, probabilmente, a ripensare in altri termini l’alleanza militare con gli Stati Uniti. Lo stesso Abe non ha fatto mistero dell’intenzione di voler definitivamente chiudere col passato e con ciò restituire un ruolo e un prestigio internazionale che si addicano al Giappone, già da molto tempo affermatosi come gigante economico globale, nonché uno tra i principali contributors di organismi internazionali quali WTO e FMI.
La recente affermazione elettorale del Partito Liberale (LDP) nelle elezioni per il rinnovo della Camera alta sembrerebbe aver consegnato ad Abe quella forza, in termini di maggioranza numerica, tale da consentirgli di governare in maniera stabile nell’immediato futuro e, magari, mettere in pratica ciò che è sempre rimasto un miraggio per i suoi predecessori alla guida del governo nazionale. Gli ostacoli, d’altro canto, non paiono irrilevanti. La maggioranza di cui dispone nei due rami del Parlamento non sarebbe sufficiente, infatti, per l’approvazione di una modifica costituzionale che inevitabilmente richiede una maggioranza qualificata. Le resistenze alla modifica dell’art.9, inoltre, non restano confinate alle aule della Dieta Nazionale ma sono ben radicate nella cultura nazionale nipponica che vede la maggioranza della popolazione opporsi, in linea di principio, a un abbandono della concezione “pacifista” della politica internazionale da parte del Giappone [3].
Le circostanze illustrate, e alcune interpretazioni che le hanno accompagnate, non descrivono tuttavia in maniera attendibile le movenze della politica estera e di difesa giapponese, né sembrano ricalcare le reali intenzioni di Abe. Lungi dall’essere una svolta militarista quella inaugurata dal NDPG, risulta invece pienamente coerente con quanto teorizzato e portato avanti nei tre anni di governi democratici, quando – in pieno accordo con Casa Bianca e Dipartimento di Stato USA – erano state poste le basi per un cambiamento di rotta nello schema strategico-difensivo giapponese, non più esclusivamente ancorato alla solida presenza militare statunitense nell’area [4], ma fondato sul concetto di “difesa dinamica” ad opera di un riformato ed evoluto SDF.
Le preoccupazioni, in termini di sicurezza nazionale e di tutela degli interessi vitali, che affliggono la leadership di Tokyo continuano ad essere prevalentemente orientate verso la penisola coreana. L’imprevedibilità delle mosse politiche di Pyongyang – causata anche dal perdurante isolamento internazionale cui è sottoposto il regime di Kim Yong-un –, lo spettro dell’arma atomica, l’irrisolta questione degli abductees, a più di dieci anni dall’ammissione fatta da Kim Yong-il a Koizumi, trovano ancora sistemazione stabile nelle Defense Priorities di Tokyo.
Per altro verso, le già difficili relazioni tra Cina e Giappone hanno subito un ulteriore shock in seguito alla spregiudicata iniziativa cinese riguardante l’istituzione nel novembre 2013 dell’Air Defense Identification Zone (ADIZ) nei pressi delle isole Diayou/Senkaku, nel Mar Cinese Orientale. La disputa territoriale sulle isole contese, e rivendicate anche da Corea del Sud e Taiwan, poggia non solo sugli interessi economici in gioco, legati al diritto esclusivo di sfruttare un’area pescosa assai ricca, alla tutela di una strategica rotta commerciale e al possibile – ancorché incerto – sfruttamento di riserve di gas e petrolio presenti in prossimità delle Senkaku; nel suo significato geostrategico l’arcipelago assume una rilevanza straordinaria anche quale anello di congiunzione del First Island Chain, che dal Mar Giallo in giù abbraccia Taiwan fino a ricomprendere il Mar Cinese Meridionale. Non era difficile, perciò, prevedere la ferma reazione di Abe alla provocazione giunta da Pechino; d’altra parte, l’accettazione dell’ADIZ vincolerebbe aerei di altre nazionalità a fornire piani di volo, a comunicare le frequenze radio, e rappresenta un tentativo neanche troppo velato di affermare la sovranità cinese sull’arcipelago. Non si è fatta attendere nemmeno la reazione dell’amministrazione statunitense che, scomunicando apertamente la presa di posizione cinese, ha disposto il sorvolo dell’area ad opera di due bombardieri B-52, nell’ideale rafforzamento del binomio Stati Uniti-Giappone e nel chiaro intento di inviare un segnale forte in quella che a molti pare una riedizione in chiave asiatica della Gunboat Diplomacy di Theodore Roosevelt [5].
Air Defense Identification Zone (ADIZ) – Fonte: BBCAl netto di queste considerazioni, la percezione della minaccia cinese in Giappone non è da intendere in termini attuali. In altre parole, i rischi di un’escalation sono davvero bassi, sia a causa del notevole grado di interdipendenza economica che esiste tra i due giganti asiatici [6] sia in ragione del fondamentale ruolo di mediazione che ricopre la potenza cinese nella gestione della questione nordcoreana e, infine, perché essenzialmente non rientra nei piani strategici di Tokyo un’azione di “contenimento” a danno della potenza cinese in ascesa.
Certamente uno scenario regionale precario e instabile non semplifica l’incanalamento di potenziali dinamiche di conflitto ma, a ben vedere, l’orientamento di politica estera giapponese appare quanto mai razionale e le risposte commisurate alla portata delle minacce esterne. Come si può leggere in un passaggio del NDPG, «Japan will urge China to excercise self-restraint and will continue to respond firmly, but in a calm manner, without escalating the situation». Nessuna concessione, dunque, viene fatta all’espansionismo cinese e ogni azione è volta a “bilanciare” l’aggressività della diplomazia di Pechino e l’ingombrante presenza della marina militare nel Mar Cinese Orientale, in ogni caso, però, attribuendo un significato “difensivo” alla risposta da formulare. L’obiettivo, dunque, resta quello di garantire la sicurezza delle rotte commerciali (Open and Stable Seas) e prevenire i conflitti nelle aree contese, “Grey zone situations”, senza rinunciare alla difesa strenua dell’interesse nazionale.
Il recente NDPG conferma, quindi, che la natura della potenza giapponese sta mutando, affrancandosi da una visione ostinatamente idealista della propria politica estera e di difesa ed affermandosi come un attore sempre più indipendente e dinamico nel quadro politico dell’Estremo Oriente. Tuttavia, la leadership politica giapponese dovrà curare con grande attenzione ogni mossa, in uno scenario molto sensibile e reattivo alle minacce, o a quelle che vengono percepite come tali. In tal senso, lo “scivolone” politico di Abe su Yasukuni, o l’imprudente analogia avanzata tra la situazione in Crimea e la disputa delle Senkaku, aprono il varco a coloro che lo accusano di essere un “falco” e avere intenti destabilizzanti e che individuano in un Giappone armato, indipendente e ipoteticamente libero da vincoli costituzionali, la perfetta incarnazione di una minaccia per la pace [7]. Un allarmismo che, allo stato attuale delle cose, risulta infondato, ma che si nutre anche dei gesti irrituali e delle reazioni scomposte – sfumature cui Abe non sembra prestare la dovuta attenzione – solo in parte giustificate dal timore che la Cina voglia realmente alterare lo status quo nella regione.
Nel frattempo, il Primo Ministro nipponico si prepara a ricevere il Presidente Obama, atteso a Tokyo il 24 aprile. L’incontro sarà certamente dedicato ad approfondire le cause dello stallo nelle negoziazioni per la Trans Pacific Partnership, ma non mancherà occasione di confrontarsi con l’inquilino della Casa Bianca attorno all’instabilità e ai disequilibri di un contesto geopolitico che resta di gran lunga il più imprevedibile e, perciò, il più preoccupante.
*Andrea Ferrante è Dottore in Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Bologna (sede di Forlì)
[1] Si veda New Security Strategy, Japan, 17/12/2013; l’incremento delle spese militari cinesi per il 2013 è del 12,2%, per un totale pari a 114 miliardi di dollari.
[2] New York Times, Opportunity and Risk in Japan, 23/7/2013
[3] Stando ai sondaggi, il 55% della popolazione si dichiara contraria alla riforma costituzionale. Sul tema si veda anche Traphagan John, Revising the Japanese Constitution, in The Diplomat, 17/5/2013
[4] Dei circa 50 mila soldati statunitensi presenti nell’area, circa la metà sono di stanza ad Okinawa. In seguito a un accordo tra governi circa 9 mila marines verranno ricollocati, prevalentemente nella base statunitense di Guam
[5] Da una parte la rapida espansione della marina militare cinese (Liaoning) e le esercitazioni militari congiunte con la Federazione Russa; dall’altra, l’ingombrante presenza della portaerei George Washington nel South China Sea e l’applicazione di strategie di dissuasione.
[6] Si veda in proposito Katz Richard, Mutual Assured Production, in Foreign Affairs
[7] Miller Berkshire, Battle-Ready Japan?, in Foreign Affairs, dove viene confutata in modo convincente la tesi di un Giappone aggressivo nell’area Asia-Pacifico
Photo credits: Issei Kato / Courtesy Reuters
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