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Il nodo della questione

Da Marcofre

Ho pensato spesso che per alcuni (spero pochi), scrivere vuol dire imitare la vita, più o meno. È un errore clamoroso. Perché di fatto toglie alla pagina scritta l’unico elemento capace di renderla viva: vale a dire lo scrittore.

Se scrivere è imitare la vita non c’è bisogno di qualcuno che pesti la tastiera di un computer. Sarebbe sufficiente mettere a punto un’applicazione in grado di prendere le parole di un dizionario, dare a esse una logico, uno sviluppo, e lasciare che faccia da sé. Magari esiste. Anzi, mi pare che siano già presenti applicazioni capaci di scrivere articoli per certi quotidiani online.
Torniamo alla narrativa.

Al principio, un autore è portato in maniera del tutto naturale a imitare certi scrittori: purché siano autorità indiscusse. Se in questa categoria non risiede un Charles Dickens, un Leonardo Sciascia, un Raymond Carver, sono guai. So che molti non concordano su questi, o altri nomi, perché sono troppo autorevoli. Non so cosa significhi l’espressione “troppo autorevoli”, ma temo voglia dire:

“Suvvia, non esageriamo. In fondo, si tratta di parole. Restiamo tra di noi”.

 

D’accordo, restiamo tra di noi. Ma rendiamoci conto che di solito un editore apre la porta a quel tipo di persone, e non ad altri. Spesso sbaglia, si fa guidare troppo dal proprio gusto (o troppo poco). Non è questo che però desidero dire.

Se distogliamo lo sguardo da quegli autori, e ci accontentiamo, non andremo mai da nessuna parte. Dobbiamo al contrario avere il coraggio e la determinazione di fissare tutto il nostro essere su di essi, sperare di avere del talento, e non abbassare mai l’asticella della qualità.

O Flannery O’Connor o l’oblio.

O Dickens o la polvere.

O Silone o niente.

 

Pensarla in maniera differente vuol dire accontentarsi. Vuol dire riconoscere la propria piccolezza. Il passo successivo non sarà la ricerca della propria voce, ma l’imitazione. Che non condurrà molto lontano, di sicuro non renderà la propria opera leggibile nel 2071.
Se in principio imitare diventa quasi un obbligo (per imparare), proseguire su questa strada ci lascerà dispersi e senza identità da qualche parte nel cosmo.

Esiste qualcosa di peggio di questo, ed è prendere di peso il vissuto, e trasferirlo sulla pagina. Perché va bene così. Perché gli amici, i parenti, i professori dicono che ho un dono e sono così bravo a raccontare a voce che…
Eccoci arrivato al nodo della questione.

Ammesso che esista il dono, non bisogna credere che sia capace di risolverci tutte le sfide e i problemi da solo.
Sono necessari almeno un paio di cose quali: impegno e disciplina. Quel vissuto che siamo tanto bravi a rendere a parole, sulla pagina fa schifo (ed è un giudizio lusinghiero).
Deve essere lavorato. Segato, tagliato. Cancellato. Riscritto. Senza fretta alcuna, perché uno dei nemici di chi scrive è proprio la fretta. In realtà oltre all’impegno e alla disciplina, sarebbe bene fare silenzio.

Per meglio vedere, ascoltare.
Silenzio.


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