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Il “nuovo” Iraq dopo il ritiro USA

Creato il 17 dicembre 2011 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Giuseppe Dentice 

Il 31 dicembre si avvicina e l’anno nuovo presenta grandi novità al nuovo Iraq. Infatti, in tale data, le 45.000 unità complessive delle United States Forces addette alla formazione delle forze armate irachene dovranno abbandonare l’Iraq dopo quasi 9 anni e costi esorbitanti per i contribuenti USA: secondo le stime del Congresso americano sono stati spesi più di 800 miliardi di dollari, impegnate più di un milione di truppe, circa 4.500 i soldati statunitensi morti e più di 100mila i civili rimasti uccisi. L’Amministrazione Obama, preoccupata dall’instabilità regionale e dalla ancora fragile situazione politica interna a Baghdad, sta studiando misure alternative per garantire comunque la propria presenza militare in modo da controbilanciare le pressioni dell’Iran sui Paesi del Golfo e sullo stesso Iraq, il quale, non ancora stabilizzato, e diviso sul piano interno, potrebbe essere un nuovo terreno di scontro all’interno del perenne scontro settario tra Sauditi e Iraniani. 

Quadro di riferimento iracheno

Il Paese, fin dalla sua rifondazione post-Saddam Hussein, è stato caratterizzato da una situazione politica interna particolarmente instabile a causa della grande frammentarietà e della debolezza politica dei governi succedutesi negli anni. Sebbene l’attuale Premier, lo sciita Nouri al-Maliki, si sia impegnato in una massiccia campagna di “de-baaththificazione” – che, tra le altre cose, ha portato a una serie ingente di arresti tra i sunniti iracheni –, il Paese è ancora profondamente instabile e con un tessuto socio-politico molto fragile, figlio delle diverse tensioni etnico-religiose che hanno contraddistinto l’intera storia del Paese mediorientale.Da un punto di vista interno, l’Iraq è segnato da violenze di carattere settario, al momento concentrate soprattutto verso la piccola comunità siro-cristiana (circa il 3% della popolazione totale, secondo i dati del CIA World Factbook), come testimoniato dall’attacco terroristico alla cattedrale di Baghdad dello scorso 31 ottobre 2010 che ha provocato oltre cinquanta morti. Inoltre, le tensioni politiche tra sunniti, sciiti e curdi riflettono gli attriti sociali tra le comunità.Per quanto il processo di pacificazionee di ricostruzione del Paese sia ben avviato, lo sviluppo è, da un lato, ancora fortemente frenato da una serie fattori di carattere politico-regionale (debolezza dell’attuale governo al-Maliki, scontri settari, tensioni con Iran) e, dall’altro, ancora dipendente dagli aiuti internazionali dei Paesi partnere, più in generale, della Comunità Internazionale. Nelle proprie relazioni internazionali, il Paese mantiene un rapporto privilegiato con USA e UE e nel panorama regionale sta tentando di ritagliarsi un ruolo indipendente cercando, come il Qatar, di mantenersi in equilibrio tra i suoi legami con l’Iran – data la forte presenza sciita nel governo – e i vicini Paesi a maggioranza sunnita della penisola arabica. L’impasse politica irachena e i pericoli rappresentati dal contesto regionale rimangono fattori di profonda inquietudine per le sorti del Paese.

I contenuti dell’accordo USA-Iraq

Il “nuovo” Iraq dopo il ritiro USA
Il SOFA (Status Of Forces Agreement),l’accordo di sicurezza siglato nel 2008 tra i governi di Washington e Baghdad, regola il definitivo rientro negli Stati Uniti dei militari rimasti nel Paese arabo (circa 45.000 unità complessive). In base a questomemorandum, la presenza statunitense dal prossimo 1 gennaio 2012 verrebbe garantita sotto compiti di difesa delle rappresentanze diplomatiche USA nel Paese e con mansioni di addestramento dell’esercito e delle forze di sicurezza irachene. Infatti, secondo le stime del Dipartimento di Stato statunitense, nel Paese mediorientale dovrebbe restare un personale di circa 17.000 unità coordinate sotto la giurisdizione di James Jeffrey, Ambasciatore degli Stati Uniti in Iraq. Inoltre, uno staff di più di 1.000 persone sarà impegnato nella sicurezza dei Consolati strategici a Bassora, Mosul e Kirkuk. Oltre a ciò, nelle città irachene resteranno un piccolo numero di addestratori e consiglieri militari, mentre il grosso delle truppe verrà trasferito nelle basi e nelle caserme fuori dai nuclei urbani, lasciando la possibilità di intervento alle forze statunitensi qualora le autorità irachene ne volessero fare richiesta. Tutto il personale americano, compresi militari e “contractor” privati della sicurezza, avrà l’immunità diplomatica. Ad ogni modo, il ritiro USA non significa, dunque, abbandonare l’Iraq poiché dal 1 gennaio 2012 resteranno a Baghdad almeno 5mila addestratori e consulenti militari statunitensi all’interno del “NATO Training Mission”, la missione di addestramento che ha fornito 115 milioni di euro di equipaggiamenti militari e che è composta anche da militari italiani, con il compito appunto di continuare i programmi di insegnamento e consulenza all’esercito iracheno. 

Le preoccupazioni degli USA

La permanenza statunitense in Iraq si spiega con la necessità di Washington di voler tenere l’Iran, il principale “nemico” degli ultimi 40 anni di politica estera USA in Medio Oriente, ai margini del processo di ricostruzione dello Stato iracheno. A Washington, infatti, sono molto preoccupati dall’instabilità della regione e dalla sempre più importante incidenza politica iraniana nell’area e nella vita pubblica irachena. Ed è su questa base che il Dipartimento della Difesa USA sta prendendo in considerazione la possibilità di incrementare la propria presenza militare in Kuwait, dove sono comunque già dislocati 29mila soldati statunitensi. Infatti, secondo quanto riportato dai quotidiani emiratini “Gulf News” e “The National”, il Generale Martin Dempsey, Capo di Stato Maggiore del comando interforce in Iraq e Afghanistan, ha ammesso che gli Stati Uniti potrebbero incrementare la loro presenza in Kuwait attraverso truppe navali, aeree e di terra, anche se dati ufficiali non sono stati ancora negoziati tra le parti. Bisogna ricordare, inoltre, che gli USA dispongono di importanti basi militari anche in Bahrain e Qatar, dove sono arruolati complessivamente quasi 7mila soldati, importanti avamposti di contenimento di eventuali azioni di Teheran nella regione del Golfo. Una cospicua presenza americana, anche se in misura minore rispetto al passato, si conta anche negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita, due, peraltro, tra i principali partner commerciali di Washington. 

I timori delle monarchie del Golfo

La paura di una nuova destabilizzazione irachena e il timore che un possibile scontro settario possa allargarsi all’intera penisola arabica sotto la pressione del sempre influente Iran sciita, farebbero propendere le monarchie arabo-sunnite ad agire militarmente attraverso il proprio organismo regionale (Consiglio di Cooperazione del Golfo – CCG) congiuntamente con il fidato alleato statunitense nel caso in cui il pressing politico di Teheran su Baghdad dovesse essere sempre più pesante. A favorire una tale iniziativa influirebbe il timore di rendere l’Iraq nuovo terreno di scontro nella perenne lotta confessionale-politica tra il Sunnismo saudita e lo Sciismo iraniano, così come è accaduto in Libano, Bahrain e Siria.Se l’Iran riuscisse a mantenere, se non addirittura ad aumentare, la propria influenza in Iraq, gli equilibri del Golfo subirebbero un drastico mutamento producendo, dunque, imprevedibili ripercussioni politiche nello scenario regionale.

Conclusioni

Il quadro della situazione che emerge è quello di un Paese non ancora stabilizzato e profondamente diviso sul piano interno. Le alleanze politiche sono fragili e non consolidate e le violenze di questi mesi, in particolar modo nel Nord del Paese e nel Sud sciita, sono ben lungi dal potersi considerare terminate. Nonostante la continua professione di indipendenza e sicurezza nelle capacità dello Stato da parte di al-Maliki, in molti in USA e nello stesso Iraq temono che nel ritiro statunitense possa nascondersi anche un problema per la sicurezza regionale. Una situazione che vedrebbe l’Iraq in balìa di provocazioni o intrusioni del suo potente vicino iraniano e con il rischio settarismo sempre pronto a sbucare da dietro l’angolo. * Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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