Adolf Hitler ha commesso un errore veramente imperdonabile: portava i baffetti ‘alla Charlot’. La somiglianza del dittatore con il vagabondo più famoso del mondo rappresenta uno di quei casi rarissimi in cui gli opposti anche se tali coincidono. Eppure, niente è più distante dalla figura del führer di quell’omino in cappotto e bombetta partorito dalla fantasia di Charlie Chaplin, così patetico e gentile. I due differiscono in tutto tranne, appunto, nell’aspetto. È stato quindi Hitler a cominciare: Chaplin gli ha risposto da par suo. Nel farlo, però, gli ha vibrato un tale fendente da farlo seriamente barcollare. Questo perché Chaplin l’ha colpito dove lui non si aspettava: è riuscito cioè a sviscerarne la parte comica, nascosta in un oceano di parole, atteggiamenti, esibizioni che incutevano soltanto paura o soggezione. Chaplin ha mostrato al mondo che si poteva anche ridere di Hitler, e che di conseguenza era possibile sconfiggerlo. L’umorismo ha il potere di ricondurre ogni aspetto della vita alla sua dimensione effettiva, al di là di ogni facile proclama e mascheramento; per un individuo, poi, si tratta di un ritorno alla sua umanità. Perché Hitler alla fine era questo, più che un politico o un condottiero: era una voce, un mito, una leggenda che incuteva timore o riverenza, e che lo precedeva nelle terre di conquista, aleggiava nelle aule di governo dei nemici. Vale infatti la pena ricordare che il film fu girato ad appena un anno dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, quando Hitler era all’apice del suo potere, e il suo esercito sembrava praticamente invincibile. Quella di Chaplin fu una delle pochissime voci a sollevarsi con chiarezza e decisione nel silenzio generale. L’obiettivo fu centrato, anche se non immediatamente: smantellandone il mito, aveva reso Hitler vulnerabile, aveva aperto gli occhi ai suoi nemici. Come si realizza tutto questo nel film? Intanto, trasformando la figura del dittatore in quella di un ometto nevrastenico e scorbutico, che non ha nulla da spartire con la sua immagine ufficiale. A impersonarlo è proprio Chaplin, che nel far ciò calca forse un po’ troppo la mano, rischiando di rendere eccessiva e quindi irreale questa sua ricostruzione. La sua critica è infatti a volte troppo urgente e rabbiosa, per scavare davvero in profondità: Hitler appare troppo maldestro, involuto, appesantito da una troppo lunga serie di difetti. La satira deve essere circoscritta all’interno della probabilità: altrimenti è dileggio, canzonatura, beffa. Ciò che non gli riesce per Hitler, però, il regista lo consegue pienamente col suo sosia-antagonista. Charlot, nei panni di un barbiere ebreo, è tutto ciò che non è Hitler, e proprio la sua grande umanità funge da metro di giudizio per le azioni del führer. Charlot è la controfigura di Hitler; vicino a lui, il dittatore perde sempre; la distanza morale tra di loro è la misura della sua perversione. Questo confronto restituisce verosimiglianza e spessore alla satira di Chaplin, e le fornisce una portata universale. Infatti, come ci appare ridicolo adesso il nostro ‘grande dittatore’! Guardiamolo, in una delle scene più famose del film. Qui Chaplin dà fondo a tutte le sue capacità espressive e mimiche, acquisite in tanti anni di film muto. Hitler, rimasto solo nella grande sala di comando, si abbandona ai suoi sogni di dominio e di grandezza, e si avvicina al mappamondo su cui ha pianificato le sue azioni di conquista. Lo abbraccia, lo stringe, lo solleva: è leggerissimo! Con sorpresa ci accorgiamo che si tratta di un pallone. A questo punto, il dittatore lancia in aria il mappamondo e lo riprende al volo, in una danza comicissima. La satira diventa ancora più incisiva quando il pallone si solleva all’altezza dei simboli – camuffati – del nazismo, incisi sopra la porta d’ingresso: un’immagine efficacissima, emblematica, e al tempo stesso divertente! Alla fine, dopo salti e capriole, il pallone finisce tra le braccia del dittatore, che lo stringe con passione: ma all’improvviso esplode. Lui resterà così, mortificato e afflitto, come un bambino senza più il suo gioco. In sé quest’immagine ha tutto: accusa, derisione, persino una profezia. Verrà il giorno - sembra dirci - in cui il potere di quest’uomo esploderà, come un pallone troppo gonfio. Nel frattempo, però, Hitler Chaplin l’aveva già sconfitto. Come? Aveva riso di lui.
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Adolf Hitler ha commesso un errore veramente imperdonabile: portava i baffetti ‘alla Charlot’. La somiglianza del dittatore con il vagabondo più famoso del mondo rappresenta uno di quei casi rarissimi in cui gli opposti anche se tali coincidono. Eppure, niente è più distante dalla figura del führer di quell’omino in cappotto e bombetta partorito dalla fantasia di Charlie Chaplin, così patetico e gentile. I due differiscono in tutto tranne, appunto, nell’aspetto. È stato quindi Hitler a cominciare: Chaplin gli ha risposto da par suo. Nel farlo, però, gli ha vibrato un tale fendente da farlo seriamente barcollare. Questo perché Chaplin l’ha colpito dove lui non si aspettava: è riuscito cioè a sviscerarne la parte comica, nascosta in un oceano di parole, atteggiamenti, esibizioni che incutevano soltanto paura o soggezione. Chaplin ha mostrato al mondo che si poteva anche ridere di Hitler, e che di conseguenza era possibile sconfiggerlo. L’umorismo ha il potere di ricondurre ogni aspetto della vita alla sua dimensione effettiva, al di là di ogni facile proclama e mascheramento; per un individuo, poi, si tratta di un ritorno alla sua umanità. Perché Hitler alla fine era questo, più che un politico o un condottiero: era una voce, un mito, una leggenda che incuteva timore o riverenza, e che lo precedeva nelle terre di conquista, aleggiava nelle aule di governo dei nemici. Vale infatti la pena ricordare che il film fu girato ad appena un anno dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, quando Hitler era all’apice del suo potere, e il suo esercito sembrava praticamente invincibile. Quella di Chaplin fu una delle pochissime voci a sollevarsi con chiarezza e decisione nel silenzio generale. L’obiettivo fu centrato, anche se non immediatamente: smantellandone il mito, aveva reso Hitler vulnerabile, aveva aperto gli occhi ai suoi nemici. Come si realizza tutto questo nel film? Intanto, trasformando la figura del dittatore in quella di un ometto nevrastenico e scorbutico, che non ha nulla da spartire con la sua immagine ufficiale. A impersonarlo è proprio Chaplin, che nel far ciò calca forse un po’ troppo la mano, rischiando di rendere eccessiva e quindi irreale questa sua ricostruzione. La sua critica è infatti a volte troppo urgente e rabbiosa, per scavare davvero in profondità: Hitler appare troppo maldestro, involuto, appesantito da una troppo lunga serie di difetti. La satira deve essere circoscritta all’interno della probabilità: altrimenti è dileggio, canzonatura, beffa. Ciò che non gli riesce per Hitler, però, il regista lo consegue pienamente col suo sosia-antagonista. Charlot, nei panni di un barbiere ebreo, è tutto ciò che non è Hitler, e proprio la sua grande umanità funge da metro di giudizio per le azioni del führer. Charlot è la controfigura di Hitler; vicino a lui, il dittatore perde sempre; la distanza morale tra di loro è la misura della sua perversione. Questo confronto restituisce verosimiglianza e spessore alla satira di Chaplin, e le fornisce una portata universale. Infatti, come ci appare ridicolo adesso il nostro ‘grande dittatore’! Guardiamolo, in una delle scene più famose del film. Qui Chaplin dà fondo a tutte le sue capacità espressive e mimiche, acquisite in tanti anni di film muto. Hitler, rimasto solo nella grande sala di comando, si abbandona ai suoi sogni di dominio e di grandezza, e si avvicina al mappamondo su cui ha pianificato le sue azioni di conquista. Lo abbraccia, lo stringe, lo solleva: è leggerissimo! Con sorpresa ci accorgiamo che si tratta di un pallone. A questo punto, il dittatore lancia in aria il mappamondo e lo riprende al volo, in una danza comicissima. La satira diventa ancora più incisiva quando il pallone si solleva all’altezza dei simboli – camuffati – del nazismo, incisi sopra la porta d’ingresso: un’immagine efficacissima, emblematica, e al tempo stesso divertente! Alla fine, dopo salti e capriole, il pallone finisce tra le braccia del dittatore, che lo stringe con passione: ma all’improvviso esplode. Lui resterà così, mortificato e afflitto, come un bambino senza più il suo gioco. In sé quest’immagine ha tutto: accusa, derisione, persino una profezia. Verrà il giorno - sembra dirci - in cui il potere di quest’uomo esploderà, come un pallone troppo gonfio. Nel frattempo, però, Hitler Chaplin l’aveva già sconfitto. Come? Aveva riso di lui.
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