Ogni città cela qualche tesoro segreto, un tesoro di inestimabile valore, sconosciuto ai suoi cittadini, ma in grado di destare meraviglia in tutte le persone che ne vengono a conoscenza.
È il caso del Papiro di Artemidoro, tesoro della città di Torino esposto al Museo Nazionale Archeologico. Un papiro dalla storia particolarmente travagliata che lo vide nelle mani di diversi proprietari, più o meno conosciuti. Del papiro si comincia a parlare nell’ultimo decennio del Novecento, quando un eminente collezionista tedesco lo mostra ad alcuni studiosi: diventa subito famoso per la grandezza dei frammenti e per la rarità del testo in essi riportato, ovvero un passo del libro Τα Γεωγραφούμενα (Tà Geographoùmena) di Artemidoro di Efeso. Molti sono gli storici dell’arte che se ne interessano, fra cui l’italiano Salvatore Settis, eminente studioso, rettore presso la Normale di Pisa per undici anni e famoso, nei giornali, per aver aspramente criticato il governo Berlusconi e la sua politica di tagli al settore cultura. Settis, convinto del valore straordinario dell’opera, pubblica assieme a due colleghi una prima descrizione nel ’98. La reazione del pubblico è immediata e incendiaria: il papiro, vero capolavoro del passato è stato composto a cavallo del I sec. a.C. e del I sec. d.C. come copia di lusso del testo di Artemidoro di Efeso, ma un errore deve aver interrotto il lento lavoro del copista e destinato il papiro al cestino della carta straccia. Il papiro però non viene distrutto, ma riciclato negli anni successivi. Il testo quindi dei Geographoùmena di Artemidoro, arricchito dalla splendida mappa di quella che forse doveva essere la Spagna, piano piano si circondò di nuove figure, animali fantastici e mitologici spesso in lotta l’uno contro l’altro: un cahier d’artiste vero e proprio, usato come supporto per mostrare ai committenti che aspetto dovevano avere i lavori richiesti e che testimonia uno dei più straordinari casi di riciclo della storia dell’arte.
Esaurito lo spazio per i bozzetti preparatori questo papiro venne utilizzato come supporto per i garzoni di bottega e per i loro esercizi. L’ultima vita di questo papiro, dopo un secolo di reimpieghi, fu come carta da macero, usato come riempimento di un “cavità non definibile” in una mummia animale, probabilmente un coccodrillo sacro. Questa triplice vita del papiro venne raccontata per la prima volta al grande pubblico nel 2006, dopo la pubblicazione del 2004, a Palazzo Bricherasio a Torino, nella città sede del più importante museo egizio d’Europa, cornice d’onore per un vero tesoro del passato. La meraviglia del mondo è grande, gli occhi degli esperti e degli appassionati d’arte e cultura sono puntati su Torino e la mostra viene visitata da molti eminenti studiosi. Uno, in particolare, Luciano Canfora, è tra i massimi esperti di filologia del mondo e nota alcune particolarità nel testo del Papiro di Artemidoro che lo spingono a formulare un’ipotesi scioccante e che ha un immediato riscontro mediatico: il papiro è un falso.
Leggendo con attenzione il testo infatti ci si accorge che sia la struttura delle frasi sia le nozioni geografiche raccontate sono decisamente più recenti di quanto si sia supposto con la semplice analisi del C-14 della carta e che fanno slittare la data di composizione a un periodo molto tardo, nel quale il papiro non veniva più neanche preso in considerazione come supporto valido per la scrittura. Inoltre, tutte le prove di autenticità portate dai primi studiosi del papiro non sono sufficienti a crederlo davvero databile a quel periodo. L’inchiostro naturale era facilmente reperibile anche nell’Ottocento da falsari famosi e incredibilmente capaci come Costantinos Simonidis, una figura talmente abile e coraggiosa da inscenare la propria morte per poter tentare di ingannare gli studiosi in modo più convincente. Ma la più grande prova a favore dell’ipotesi di Canfora è comparsa recentemente a Mosca, in un ritrovato elenco di falsi confezionati da Simonidis: fra i titoli vi è anche un “Geographia”, che coinciderebbe perfettamente con il nostro Papiro di Artemidoro.
E dunque al pubblico cosa rimane? Un’affascinante opera, un pezzo di storia che, fingendo di raccontare una bottega del I sec. a.C., narra di un mondo molto più vicino a noi, un Ottocento partecipe di un sentimento di odio e amore nei confronti del mondo classico, di riscoperta scientifica della storia passata e della lingua e dell’arte, di falsari abbastanza abili da ingannare eminenti storici d’arte. Ma è anche uno straordinario pezzo di tecnica artistica, nonostante i presupposti sbagliati, vista la bellezza dei disegni e la fantasia manifesta nel produrli. Un capolavoro comunque, anche se molto probabilmente un falso, che merita attenzione e ammirazione e che, nel Museo Archeologico di Torino, ha trovato una meravigliosa esposizione.
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