Non passa giorno che la gente (o meglio #laggente) non mi lasci perplessa, o addirittura completamente basita, di fronte alla propria cattiveria, stupidità, o a un mix vario e assolutamente letale delle due cose.
E forse c’è il seme della stupidità anche in me (e forse ha già germogliato ed è cresciuta una bella pianticella), perché finisco per restarci male ogni volta… nonostante io sappia, le abbia già viste tutte, e non dovrei sorprendermi. E tuttavia niente, ancora che mi sorprendo e ci resto male. Non imparerò davvero mai.
Succede, e anche voi lo avete visto, ne sono sicura, che questo mondo è governato dal poraccismo, che si manifesta nelle sue varie forme, esasperato dalle condizioni di lavoro e da un certo lassismo, mentale e fisico, che ha costituito i presupposti adatti perché il poraccismo proliferasse.
Cos’è il poraccismo?
È quando l’impiegato a tempo indeterminato si sente minacciato, in azienda, dal “nuovo arrivato”, dallo stagista, dal collaboratore a progetto, dal consulente. E diciamo pure che d’ora in poi chiameremo questa fauna varia, che sta in azienda “con la scadenza” scritta su una chiappa, “gli esterni”.
È quando, detti impiegati a tempo indeterminato (d’ora in poi chiamiamoli pure “i poracci”) rosicano talmente tanto che si sentono in dovere di provare in tutti i modi a far fuori gli esterni, arrivando al punto di rendersi ridicoli.
Ridicoli perché voglio dire: primo, di cosa rosichi, che invidia hai di due poveri stronzi che non mettono insieme il pranzo con la cena, con quello che gli da la tua azienda, che fra sei mesi probabilmente nemmanco vedrai più, e che, tutto sommato, sono solo lì per aiutarti.
Secondo, ti sei reso conto che, anche facendo fuori gli esterni, a te in tasca non ne verrà niente di più, vero? Non è che ti sei convinto che “paga di meno un consulente o sfrutta aggratis uno stagista e avrai uno stipendio più alto”, vero?
E terzo: ti sei reso conto, o poraccio ingrugnito, che quello sfigato di esterno è lì non per fare il tuo lavoro, ma per fare il suo? Probabilmente perché tu non lo sai e/o non lo vuoi/puoi fare, vero?
Eh no, che non se ne rendono conto, fa parte del loro essere poracci: non vedono al di là del loro naso, e non ragionano al di là del concetto di “impiego statale”, fatto di orari inflessibili (9-5 e poi casca la penna) e prestazione d’opera indipendente dal risultato. Ovvero: se mi pagano allo stesso modo, che io faccia 20 o che faccia 100…perché dovrei fare 100? Faccio 20 e mi incazzo se arriva qualcun altro a fare l’80 che resta!
Giustamente.
La matematica non è un’opinione. No?
Peccato che le cose non funzionino più così. Dalla prestazione totale di quel 100 dipendono i futuri ricavi, nonché le conferme di contratti, dell’azienda in cui lavori, caro il mio poraccio. Se tu fai 20, e ti opponi a che qualcun altro faccia 80 per arrivare a 100, la tua azienda finisce per fare 20. E i clienti, che ti pagano lo stipendio, dicono ciao ciao bambina, e se ne vanno.
E tu l’anno prossimo che farai (oltre a prendertela con l’ennesimo stagista)?
Prenderai una pedata nel culo. Magari non l’anno prossimo, ma quello dopo.
Non ti preoccupa il futuro? Beh ma questo è un controsenso e una bugia bella e buona, caro poraccio mio: perché ti stai già preoccupando adesso, in questi sei mesi in cui lo sfigato sta lavorando per te (si, mio caro, PER TE)! E ti stai adoperando con ogni mezzo (soprattutto gli illeciti, fatti di frecciatine e parole velenose sussurrate nei corridoi), per farlo fuori. Guarda che ti vedono tutti, sai? E non ci fai una bella figura…
Contento tu… a noi esterni, se non fossimo più forti e abituati di così, con la pellaccia dura cresciuta a suon di disoccupazione e beghinaggi vari, ci verrebbe da piangere di fronte alle tue cattiverie.
No, sul serio, quasi quasi qualche lacrimuccia di fronte a tanta stupidità la spremo, dai.
Scherzi a parte, la verità è che mi fanno pena. I poracci dico, mi fanno pena.
Spesso dimentico che, poiché io non sono nata né sono stata cresciuta così, anche gli altri lo siano. Dimentico che siccome io non faccio certe cose, non è che automaticamente anche chi mi sta intorno non le faccia.
Invece avrei dovuto imparare, ormai, con tutte quelle che ho visto, che le cose vanno proprio al contrario. Là fuori c’è la sagra del “ti fotto appena posso perché non mi costa niente anzi penso di guadagnarci pure”, ma alla fin fine, tirate le somme, nessuno vince in questo gioco.
Non vincono certo gli esterni, con la loro vita precaria e il sangue acido e la pelle di pietra, e non vincono i poracci (signore perdonali perché non sanno quello che fanno).
Certe volte mi dico che invece dei corsi sul primo soccorso dovrebbero tenere dei corsi di educazione all’anti-poraccismo, in azienda ma anche nelle istituzioni per il recupero dei disoccupati (che certe volte laggente mica perde il vizio…) e l’Accademia della Crusca dovrebbe inserire il termine poraccismo (e conseguentemente il sostantivo “poraccio/a”) nel proprio dizionario. Ce n’è talmente tanto in giro che bisogna identificare in qualche modo il fenomeno. Dargli un nome è il primo passo per combatterlo.
Davvero, dovrebbero insegnare, in azienda, che il poraccismo è una brutta malattia e chi di poraccismo ferisce di poraccismo perisce… ed è una profezia, la mia.
L’ho visto accadere, posso testimoniare che alla fine va così.
Sopra la panca il poraccio campa sotto la panca il poraccio crepa.
E il “sotto la panca” sta arrivando per tutti.
Probabilmente è questa consapevolezza, che spaventa tanto il poraccio e lo fa reagire. Come dice una mia saggia amica “l’animale ferito e in un angolo è il più pericoloso perché è disperato, e morde anche la mano del padrone”.
È vero, e tuttavia io mi chiedo: perché non sono mai stata così? Perché anche quando ero la più disperata delle disperate, non mi sono mai arresa a non avere vie di fuga? Perché non ho sbranato i miei compagni di sventura?
Ad oggi mi piace pensare, invece di essere stata la meno furba, di esserlo stata di più.
Di essere stata talmente tante volte vittima di violenze psicologiche varie e mobbing (si, cari poracci illusi, questa robaccia che fate, a vario titolo, si chiama mobbing) da averci fatto il callo. E da sapere come ci si sente, tanto da non aver voglia di farlo ad altri.
E dall’alto della mia esperienza, cari “esterni”, vi dico: non siate animali feriti, non siate poracci dentro e fuori, non ve ne viene niente in tasca! Anzi, a mio modesto parere, finite per scavarvi da soli una fossa anche più profonda di quella in cui siete.
In questo clima anti-lavorativo, non vi siete accorti che l’ultima moneta di scambio ancora valida è la reputazione, o – se volete chiamarla così- l’apparenza?
Cari i miei poracci, voi non ci fate una bella figura con quello che state facendo, e dimenticate una cosa fondamentale: quando finirete a nuotare nel nostro mare, di disoccupazione e precariato (poiché si tratta solo di QUANDO, non di “se” e “se mai”) scoprirete l’amara realtà.
Che noi siamo solo andati avanti, e ora siamo tutti qui ad aspettarvi, e abbiamo avuto tutto il tempo di affilarci i denti e diventare i nuovi pescecani, in questo mare.
Buttatevi, che l’acqua è alta e gelida.