La prova del rancio sulla nave Zara.
Il cibo sulle navi dall’antichità ad oggi. Prima parte.
Il rancio, questa parola che ha connotazioni negative nel nostro immaginario collettivo è in realtà un momento tutto particolare nella vita dei marinai. Il rancio è un momento di condivisione, un’oasi di tranquillità nei mari in tempesta, un momento in cui tutti a bordo, i marinai, i passeggeri e gli ufficiali si riuniscono e dividono lo stesso cibo.
Ne ho parlato con il Capitano di Vascello Alessandro Pini che, con la sua vasta esperienza di commissario nella marina militare e il suo accattivante entusiasmo, ha ideato un evento in cui racconta la storia, le tradizioni e gli aneddoti legati al rancio a bordo delle navi nella storia, sotto il patrocinio dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia. In una serie di incontri a base di lunghe chiacchiere, cibo e vino il Capitano Pini ha diviso con me il suo sapere e io ne racconto qui una parte.
La parola “rancio” ha, in sé, una storia particolare e dubbia ne è l’etimologia: sembra derivi dal francese “se rangér” o dallo spagnolo “rancharse”, termini che indicano entrambi il riunirsi insieme di un gruppo di marinai per consumare il pasto.
Un momento conviviale quindi in un luogo, la nave, dove la vita non è proprio semplice: settimane e settimane al largo, senza altra compagnia dei propri ‘colleghi’, giornate intere noiosissime di calma piatta seguite da infernali dì dove le tempeste sconvolgono la vita a bordo ed il mare sembra essere, e di fatto lo è, padrone dei destini di chi è a bordo.
La storia dei pasti di bordo è affascinante: abbiamo il grande Pigafetta, cronista dei viaggi di Magellano, che racconta di episodi in cui l’equipaggio, esaurita ogni scorta di cibo, era costretto a “cibarsi” dei legacci di cuoio delle vele e in cui i topi morti erano una ghiottoneria…
Comunque, orrori dietetici a parte, se leggiamo una lista di “bordo” del 3000 a.C. la troviamo curiosamente gustosa e persino i nostri ‘delicati’ palati moderni apprezzerebbero. Vi si trova infatti: pesce, carne di montone, formaggio di capra, pane e focaccia, miele, verdure, datteri, fichi e melograni, olio di oliva (o di noce), vino di datteri, e persino birra!
E che dire degli egiziani? Certo questo straordinario popolo è impresso nelle nostri menti per le assurdamente enormi ma nondimeno affascinanti piramidi ma ricordiamo che furono anche i primi ad avere una flotta vera e propria. Le città portuali, anche non egiziane, dovevano rifornire le navi di passaggio. Nel Papiro di Harris (datato XIII sec. a.C.) si parla di focacce (“rehes”) e carne secca oltre che di ben trenta tipi diversi di pane. Gli egiziani si erano posti anche il problema della conservazione del cibo e nel Bassorilievo di Beni Hasan (fine del II millennio a.C.) si trova descritto l’uso di salare i pesci prima della consegna a bordo, il che ne consentiva una migliore conservazione.
Anche nella storia greca troviamo testimonianze interessanti: il poeta Archestrato di Gela (circa 330 a.C.), nell’“Hedypatheia” (Poema del buongustaio) racconta i suoi lunghi viaggi alla ricerca delle migliori prelibatezze e parla del pane, dei pesci, della selvaggina, della produzione e della conservazione del vino. Si potrebbe anche leggerlo come critico gastronomico ante litteram. Infatti, quale cultore dell’arte del piacere, critica i cuochi siracusani che “imbrattano” il pesce con “untumi e caci vari” e raccomanda di condirli solo con sale, olio e qualche erbetta odorosa. Indica, inoltre, le specie più rinomate di pesce, come le anguille dello Stretto, le orate di Selinunte, i tonni e il pescespada di Tindari.
Una nave romana ricostruita oggi.
Arriviamo poi ai romani che solo verso il 338 a.C. cominciarono ad avere una flotta stabile. Una flotta la cui forza motrice erano gli schiavi rematori. Questi poveretti erano legati alle panche e costretti a remare fino allo sfinimento e per farlo avevano bisogno di cibo. Quindi anche sulle navi romane si pone il problema del cibo. Avevano per lo più pesce sotto sale ed il famigerato garum, quella salsa fatta di interiora di pesce lasciate macerare per mesi che i romani amavano così tanto e con cui condivano ogni tipo di pietanza. Ma a bordo non mancavano formaggi, la gustosa “maza” (una zuppa di farina, acqua, olio o vino, sale, miele) e il “moretum” (farina, formaggio, aglio, ruta, aceto, olio e uova) molto diffusa era, inoltre, la “dura” un pane duro, quasi biscottato. Si trovava anche il vino, conservato con spezie e resine, una bevanda ancora presente nell’odierna Grecia: la retsìna. Vi sono anche testimonianze di navi in cui si mangiavano ostriche (provenienti dalla Britannia) che venivano conservate con neve pressata.
A proposito di vino, curioso sapere che i romani sono stati anche i primi ‘creatori’ dei vini DOC; infatti sui tappi delle anfore veniva impresso il marchio di spedizione, il tipo di merce e la provenienza. Esisteva poi la figura del “Praefectus classis” colui che era responsabile dei rifornimenti, costruzioni e armamento; c’erano persino delle ditte private che organizzavano dei ‘symposia’ sulle navi, antesignani dei nostri moderni catering. Un ultima curiosità su questi nostri antenati: i comandanti delle navi avevano dei veri e propri elenchi con le ‘stationes’ più adatte dove rifornirsi di cibo: come se avessero una sorta di Guida Michelin dell’antica Roma!
Ma andiamo più a nord. Andiamo a curiosare tra i vichinghi: questi strani personaggi che nel nostro immaginario collettivo incutono timore e rispetto, erano, si sa, grandissimi marinai. Avevano navi di legno con scafi bassi, che permettevano di navigare nei mari in tempesta e nelle basse acque fluviali. Anche questi feroci marinai dovevano mangiare e a bordo delle loro navi si trovava un po’ di tutto. Non mancavano vari tipi di pane che, come abbiamo visto, era una costante: pane con mele, farina e pepe per i viandanti d’inverno; con latte, burro, uova e zenzero, per gli ammalati; biscottato, per i naviganti e gli assediati. I biondi marinai non si facevano mancare le proteine e a bordo si potevano gustare vari tipi di pesce (affumicato, salato o conservato nella neve), carni affumicate e focacce con legumi.
Arriviamo quindi al Medioevo, quel periodo che tutti noi vediamo con un momento di passaggio nella storia dell’umanità (almeno di quella del mondo occidentale). Un periodo difficile socialmente, nel quale fame, lotte e carestie erano una costante. Eppure, i nostri antenati dell’epoca non si accontentarono di ‘sopravvivere’ in terra ferma, ma esplorarono, coraggiosamente, i mari.
Va però notato che nell’antichità si navigava da aprile a ottobre e d’inverno il mare era considerato “clausum”, chiuso. Troppe erano le difficoltà: condizioni meteo avverse, difficoltà di approvvigionamento e conservazione delle derrate, fragilità degli scafi. Ma la cosiddetta rivoluzione nautica cambia l’organizzazione di bordo e permette di navigare tutto l’anno. Quali sono le novità? Innanzitutto, l’introduzione a bordo della bussola, che permise la navigazione a prescindere dalla visibilità del cielo; l’evoluzione della matematica che, applicata ai viaggi in mare, consentì calcoli di rotta fino ad allora impensabili e una migliore, generale, manovrabilità delle navi.
Nelle navi medioevali, inoltre, migliora leggermente la qualità dei pasti a bordo. Pur continuando a mangiare senza posate (come, del resto, accadeva a terra), sono presenti a bordo molti utensili che arricchiscono le potenzialità delle cucine: calderoni in rame, padelle, casseruole, spiedi, schiumarole, mortai, pestelli, macine e forni in rame per panificare. Si mangiano biscotti, zuppe, carne e lardo, formaggi, sardine, olio e si beve vino, anche se i viaggiatori dell’epoca consumavano una quantità di carboidrati doppia rispetto a quella delle proteine e assumevano poche vitamine e sali minerali.
In quelle navi deve essere stata una vera babele di lingue, abiti sfarzosi misti a pezze, indossate dai pellegrini diretti in Terra Santa, odori di spezie e di cibi, galline e capponi vivi che scorrazzavano tra i passeggeri e si azzuffavano con i topi. Un intero mondo racchiuso in pochi metri quadrati, un mondo di gente diversa, ma unita da uno spazio e che condivideva quel momento di convivialità che riesce a riunire tutti e a pacificare gli animi: un pasto caldo.
Dal buio Medioevo possiamo passare, a quello che è forse uno dei periodi migliori dal punto di vista ‘marinaro’: le Repubbliche Marinare, appunto.
Marinai pisani della nostra epoca…
La prima tra queste che, con Pisa, si spinge oltre le Colonne d’Ercole, così temute dai marinai di Ulisse, è Genova. Nasce in questo periodo la figura del ‘fornitore navale’ e abbiamo documenti, datati 1338, nei quali si dichiara che il proprietario della nave deve garantire ad ogni singolo membro dell’equipaggio almeno 800g di biscotto al giorno (non avevano paura dei carboidrati, all’epoca!). Sulle navi si servono brodo di pesce, zuppe, cappon magro, capponata (galletta, acciughe salate, mosciame, olive, olio e sale) e la “mesciua” (ceci, fagioli, granfano). Non mancano le curiosità: scopriamo che a bordo veniva servita una pasta condita con erbe e formaggio e frutta secca, condimento che potremmo ipotizzare essere un antenato del conosciutissimo pesto. Ci sono poi i fornitori del bisacotto, che sono tenuti a giurare di fornire un biscotto “bonus et idoneus” e chi non si attiene subisce severe punizioni, segno inequivocabile di quanto il biscotto e il rancio venissero presi sul serio. C’è, però, una distribuzione “gerarchica” del cibo: il capitano e gli ufficiali ne ricevono dosi a volte eccessive e, spesso, lo rivendono sottobanco agli affamati membri dell’equipaggio.
Un’altra, importantissima, Repubblica Marinara è, ovviamente, Venezia, la “Serenissima”: una città le cui sorti dipendevano dai marinai. L’Arsenale occupava 26 ettari, aveva 3.000 operai e produceva 100 galee in un mese e mezzo (circa 2 al giorno). Le esigenze di chi navigava erano importanti: si era creato persino il “provveditore del biscotto”, colui che curava la produzione delle gallette. Venivano emanate le prime leggi: in una datata 1282, il Senato nomina i funzionari preposti al controllo dell’applicazione delle leggi (il vitto e l’equivalente in denaro spettanti ai marinai delle navi mercantili sono detti “panatica”). I marinai però sono responsabili delle proprie provviste e portano a bordo il proprio cibo, acqua e vino.
Una curiosità: il cibo a bordo, si sa, deve durare e in questo erano maestri i panettieri dell’epoca, al punto che a Candia, nel 1821, sono stati trovati dei biscotti, perfettamente conservati, risalenti al 1669! Certo, probabilmente il sapore non sarà stato il massimo, ma la loro tenuta è ‘storicamente’ accertata!
Dai documenti ritrovati, scopriamo che per 4 mesi di mare si calcolavano 500 kg di acqua pro-capite, gallette, maiale salato, fave, formaggio, vino (il tutto per un apporto calorico giornaliero di 3.915 Kcal, delle quali 14,4% da proteine, 14,3% da grassi, 71,3% da carboidrati).
Anche per Venezia, quindi, il rancio era una cosa seria: esisteva un rigido controllo dei forni, con perizie in tribunale e tracciabilità dei prodotti. E severe erano le punizioni: se il biscotto risultava alterato durante la lavorazione, il “pistor” (panettiere, in dialetto veneto) veniva spedito per 5 anni sulle galee o – se il fisico non lo consentiva – scontava 10 anni di carcere duro per “attentato alla salute pubblica”. Inoltre, i forni che producevano biscotto, dovevano lavorare esclusivamente per Venezia, pena una multa salata, la privazione dell’incarico a vita e il bando da Venezia per 10 anni.
Chiudiamo, per ora, il nostro curiosare nelle stive delle navi. Nella prossima puntata ‘parleremo’ con Colombo e Magellano e ci faremo raccontare come sopravvivevano a bordo (chissà se da chi dell’equipaggio di Colombo sarà stato assaggiato il primo pomodoro!) per poi arrivare ai tempi moderni con le navi iper tecnologiche e i muscolosi marines americani la cui dieta potrebbe essere più invitante di quanto si pensi!
(…continua a marzo…)