William Blake, "Ancient of Days (God as an Architect)" (1794)
scritto da Gaetano Veninata per Pagine dal Sud
“Il raro fiore e l’immensa idea”: basterebbe questo semplice titolo per aprire vasti spazi ad un’analisi originale e poco esplorata dalla critica del rapporto tra la poetica del giovane Keats (morto a soli 26 anni) e quella del “maledetto” Baudelaire. Due figure ribelli, straordinarie, due poeti veri. Non è un caso che due grandi scrittori siciliani, Gesualdo Bufalino e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, abbiano dedicato ai due parole d’ammirazione, veri e propri omaggi artistici. Bufalino, con una lunga e sentita introduzione a Les Fleurs du Mal, grazie alla quale ,presi per mano da un altro siciliano, ci si orienta nel tormentato universo poetico baudelairiano; Tomasi di Lampedusa, con queste dolcissime parole:
Talvolta appaiono sulla terra degli esseri che riflettono nella loro esistenza una luce più che umana. […] Fra gli angeli io ritrovo Raffaello e Masaccio, Mozart e Hölderlin, Rimbaud e Maurice de Guérin, Shelley, Marlowe e Keats.
In questa lista, splendente di gioia e, per noi, di lacrime, il posto supremo spetta a John Keats. Di tutti egli è il solo assolutamente puro. So bene che non è colpa loro, ma qualche macchia di fango imbratta le ali di Marlowe e di Shelley; Rimbaud è indubbiamente un angelo, ma, come Marlowe, non si sa bene se venisse da su o da giù; la lussuria di Raffaello, la follia di Hölderlin, l’iracondia di Masaccio, la moglie di Mozart sono delle lievi mande sul candore delle loro vesti. Angelo di prima classe, arcangelo, serafino, cherubino, angelo a tutto tondo, angelo a cento carati, angelo con le ali di prima scelta garantite contro le tarme non vi è che John Keats.
La trattazione di questo argomento parte dalla convinzione di trovare proprio in Baudelaire l’immagine di quel poeta che Keats temeva di diventare, disperso nelle metropoli della ragione decadente (la Parigi delle barricate e della reazione, la Londra della monarchia e dei primi processi di industrializzazione). Già la parola Decadentismo - figliastra dell’altra, più dolce e malinconica: Romanticismo – sembra testimoniare la perdita d’importanza e di sostanza della poesia, la sconfitta dei poeti, che è sconfitta di un’intera civiltà; quella decadente appunto. Ponendosi come precursore di tale movimento storico-artistico, e allo stesso tempo come ammiratore del Romanticismo (del quale non tarderà a riconoscere i limiti), è proprio Baudelaire il poeta che più di tutti si avvicina al prototipo di poeta sconfitto che si profilava negli incubi di Keats.
Ciò conduce a investigare le condizioni di un fenomeno lucidamente registrato da Keats: alla progressiva erosione dell’autorevolezza del materiale poetico classico sul quale si basava la poesia dei grandi del passato, sotto la spinta delle innovazioni tematico – stilistiche della prima generazione dei romantici, consegue una ben più radicale e tragicamente sentita disillusione, la consapevolezza dell’incapacità della poesia di rimandare, ultima scrittura della modernità a desacralizzarsi, a un ordine di senso trascendente. Profetico e visionario anche in questo, il giovane poeta inglese avverte più di tutti i suoi contemporanei la gravità della ricaduta che tale sconfitta dell’arte avrebbe avuto sulla società e sulle stesse coscienze delle epoche successive; e Baudelaire è esattamente un figlio di quella sconfitta, è un poeta vagabondo che ha perso Dio e va cercando rifugio in templi che, disertati dagli dèi, si trasformano in paradisi artificiali, in “foreste di simboli” privati di referente metafisico, ridotti a “trasporti della mente e dei sensi”. Il Decadentismo è appunto il frutto “corrotto e trionfante” del Romanticismo.
Similmente all’antinomia keatsiana sogno-visione – quale chiave necessaria alla comprensione delle idee del poeta inglese – è possibile così accostare la contrapposizione padre-figlio, Dio – Gesù, che ricorre continuamente nelle stanze baudelairiane. L’esito di questa doppia dinamica del disincanto è che, nei due poeti, la storia dell’umanità, con la sua ricerca affannata di una verità irraggiungibile, si ritrova proiettata in un punto di convergenza tenuto ossessivamente sotto gli occhi: la morte. Se contro di essa combattono i due poeti, scandagliando i fondali della sensibilità umana, la sacralità della poesia viene avvertita come un mezzo di contrasto insufficiente e inefficace: un’arma spuntata, per Keats; di plastica, per Baudelaire.
Rare fleur e vast idea sono le parole con cui potremmo simbolicamente condensare le poetiche di Baudelaire e Keats. Obiettivo dei due poeti è quello di riuscire a cogliere ciò che c’è di irrazionale, o meglio ciò che l’uomo non è ancora riuscito a spiegarsi con la ragione. Tale è il compito del poeta sin dall’antichità, ed è purtroppo il Romanticismo (specialmente quello inglese) ad aver rovesciato la logica di una ricerca poetica di verità proiettata in avanti e dunque visionaria e di averla sostituita con una logica wordsworthiana della poesia come ricordo (e non più come creazione). Raro fiore ed immensa idea significano la stessa cosa: poesia pura, intuita, vista, non detta o ricordata, raggiungibile solamente attraverso ciò che Keats chiama dis-interesse e Baudelaire insoddisfazione; laddove per (dis)interesse il poeta inglese intende la capacità (che definirà negativa) di rimanere nell’incertezza e nel dubbio, nel non darsi mai, in definitiva e paradossalmente, delle risposte certe e razionali. C’è anche qui una negazione della religione ufficiale, fucina di illusioni mascherate da dogmi, da certezze trascendentali. Solo una ricerca continua, e in fin dei conti eterna, di bellezza, condurrà alla verità, solo un uomo senza interessi perché senza certezze riuscirà a scardinare le porte ancora oscure del futuro. Nell’insoddisfazione di Baudelaire vediamo il frutto maturo del dis-interesse keatsiano.
Angoscia e indolenza sono le due chiavi fondamentali per raggiungere lo scopo; o meglio, l’angoscia di Baudelaire è il risultato disperato al quale sarebbe giunta l’indolenza keatsiana. L’indolenza, immortalata dal poeta inglese in una straordinaria ode, va intesa come obnubilamento dei sensi, assenza di piacere o dolore, dis-interesse, appunto, nei confronti di qualsiasi realtà empirica; ma l’indolenza di Keats, in Baudelaire, si trasforma presto in noia, e lentamente in angoscia. Sono dolci, sì, le fughe da fermo del poeta francese, ma la società senza senso nel quale è immerso, lo riconduce presto ad una sensazione terribile di nullità; l’indolenza scivola in una perdizione destinata anch’essa al deliquio, non più colmo di poesia, ma simile alla morte.
Sia per Keats che per Baudelaire la morte risulta strettamente legata all’amore; nel poeta inglese tutto ciò è rintracciabile nella figura sublime di Lamia, la protagonista dell’omonimo poemetto del 1820, da analizzare attraverso la lente rivelatrice dell’illusione amorosa; in Baudelaire l’amore risulta solo una grande beffa: la frigidità cadaverica è l’unica realtà, poiché la morte è l’amore, l’amore è la morte; simbolo di tutto ciò, uno dei più sconcertanti fiori del male, Je t’adore (1857). Attraverso la lettura delle lettere di Keats alla fidanzata, Fanny Brawne, risulta evidente come proprio l’amore individualista, egoista, sublime e singolare del poeta abbia condotto l’artista ad una solitudine che lo porterà alla morte, proprio perché lo strapperà a quel dis-interesse indolente faticosamente inseguito. Baudelaire, d’altro canto, è anch’egli vittima dell’amore, ma, allo stesso tempo, è anche carnefice; Jeanne Duval, la bella attrice creola conosciuta sul palcoscenico del teatro di Porte Saint-Antoine nel 1843, diviene il suo algido specchio, in un gioco di doppi che nel poeta francese è sinonimo di vita reale.
È a Thomas Chatterton (1752-1770), il più “Stürmer und Dränger” fra i preromantici inglesi, che pensa Keats mentre compone l’ode all’Autunno, opera fondamentale in quanto simbolo di quel “fine excess” che è per il poeta la poesia romantica; eccesso, traboccare che è splendidamente reso eterno nell’ode e che è compito del poeta cogliere, così come l’amore deve essere colto nel momento in cui il suo estremizzarsi si protende oltre la morte. Un compito impossibile per Keats, e ancor più impossibile per Baudelaire, già disilluso, già “maturo”; è l’ennesima traccia che conduce all’idea di fondo, quella di un tragitto comune dei due poeti, dall’illusione alla sconfitta, dal Romanticismo al Decadentismo.
Keats nasce e cresce nell’Inghilterra bigotta complice della restaurazione della monarchia borbonica in Francia, ma è comunque figlio della seconda generazione romantica, la generazione dei Lord Byron, degli Shelley, e, seppur in maniera minore, di Leigh Hunt. E’ proprio in casa di quest’ultimo, editore di riviste liberali, il primo rifugio poetico del giovane John. Sono Byron e Shelley, che dedicherà all’amico morto i dolci versi di Adonais, i suoi padrini letterari; loro, i due poeti dandy, che sconvolsero il regno con morti precoci e assurde, furono esempi per intere generazioni di giovani artisti; a loro si unirà nel vento il “poeta camaleonte”. Resta quindi una traccia, in tutta la produzione keatsiana, dell’ambiente liberale nel quale vivono e si formano i giovani poeti della seconda generazione romantica; basti pensare ai versi d’apertura del III libro del suo primo poema, Endymion, che traboccano di irriverenza nei confronti della monarchia e della Restaurazione, o al discorso quasi illuminista di Oceano, nel secondo poema keatsiano, Hyperion.
Se in Keats la speranza di un cambiamento rivoluzionario è flebile, ma costante, in Baudelaire diviene sarcastica illusione: “Baudelaire – scrive Sartre – s’è posto innanzi un’alternativa: poiché non vi sono principi belli e fatti ai quali attaccarsi, o bisognerà stagnare in un indifferentismo amorale, oppure inventerà lui stesso il Bene e il Male”. Egli, il poeta dell’insoddisfazione, sulle barricate nei moti del 1848 parigino, vi resta per tutta la vita; ma non perché, politicamente, figlio degli ideali rivoluzionari, bensì perché non esiste nulla di più necessario per l’anima spaccata del poeta di un’espiazione (la rivoluzione) non voluta, per un Bene impossibile da raggiungere. Idee condensate nella raccolta Mon Coeur mis à nu, vero e proprio testamento poetico, filosofico e politico del poeta parigino.
È sul filo rosso della continuità poetica tra Romanticismo e Decadentismo che si dipana il destino di due figli sconfitti della poesia, John Keats e Charles Baudelaire; è su tale filo rosso che si può ulteriormente procedere ritrovandosi «tra le angosce e le lotte» di due straordinari «cuori umani».