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Il regista degli estremi: Terrence Malick – parte 2

Creato il 17 maggio 2013 da Drkino

Con l’arrivo del suo nuovo To The Wonder, ecco un articolo per aiutare meglio i nuovi cinefili (ma anche quelli di vecchia data) a comprendere e ad accettare un pilastro del cinema moderno.

Dopo la nascita del suo secondogenito, Malick si rinchiude in un ventennio di alienazione cinematografica. Rifiuta di dirigere The Elephant Man e, quasi per ripicca, fugge in Francia dove si dedica per gran parte del tempo all’insegnamento di filosofia. Nell’ombra però, egli inizia ad elaborare la stesura di un suo personale progetto sulla vita nell’universo, allora denominato Q.

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Sono ormai gli anni ’90 inoltrati quando gli passa per le mani un romanzo che lo convincerà a tornare in America. Il testo, che tratta il tema della guerra in rapporto all’uomo ed al cosmo, porta il nome di La sottile linea rossa.

Ed è così che nel 1998 esce nelle sale il film tratto dal romanzo omonimo. Esponendo un cast glorioso, composto da grandi star di Hollywood (dimezzato in pre e post produzione), La sottile linea rossa si rivela essere il primo grande capolavoro di Malick. Entrato sfortunatamente in conflitto con il ben più prolifico (economicamente e mediaticamente) Salvate il soldato Ryan uscito lo stesso anno, il lungometraggio di Terry passa in sordina all’occhio del grande pubblico. Dizionari e cinefili accaniti però non se lo lasciano sfuggire e, questo film col tempo, acquisterà sempre più la notorietà e la fama che merita. Già, perché questo non è il classico film di guerra, non vuole né intrattenere né moralizzare sull’esistenza infame dei conflitti armati. Il regista texano dipinge un affresco che mette in contrapposizione non tanto l’uomo contro l’uomo, quanto la foga selvaggia dell’umanità alla placida esistenza della natura. Ecco allora che rispunta fuori in tutto il suo splendore il fascino dello scorrere quieto dell’universo ed il fideismo irrazionale. Il contrasto tra sporco scenario bellico e limpide immagini di un tramonto tropicale è evidente e riuscitissimo. Tutti gli elementi sono in un equilibrio simbiotico tra loro, dal montaggio destrutturato (che alterna i volti dei protagonisti a immagini naturalistiche) al comparto sonoro trascendente la razionalità (firmato da Zimmer). Ancora una volta interviene la presenza ingombrante ed essenziale della fotografia, coadiuvata da una voice over più aulica che mai. Momenti onirici si fondono con la cruda realtà, in un perfetto mix di estasi e catarsi spirituale (dei protagonisti ma anche dello spettatore). Un film profondamente antropologico, che completa l’anima e ristora i sensi.

E’ il 2005 quando esce la sua quarta opera, intitolata The New World, incentrata sulla vita di Pocahontas e

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sui suoi rapporti amorosi. Il ciclo si ripete, la tecnica consolidata viene riciclata ed il film è nuovamente un insuccesso di pubblico e uno spartiacque tra la critica specializzata. Nonostante la sceneggiatura si riveli estremamente lenta ed il finale rechi con sé non poca pesantezza, il difetto maggiore è forse quello più celato dell’enfatizzazione della bellezza. L’America pre-coloniale è un sogno smarrito (l’Eden) e si annulla con il viaggio spirituale nell’incontaminata regione selvaggia. E’ qui che la poetica di Malick mostra il fianco, dimostrando come sia fondata non tanto sul raggiungimento della massima espressione divina, quanto sul confronto degli estremi.

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Nel 2011, reo dei difetti marginali e sporadici dei precedenti lavori, viene finalmente presentato a Cannes, con due anni di ritardo rispetto all’uscita inizialmente prevista, il suo progetto più intimo ed allevato per lungo tempo: Q, o meglio The Tree of Life. L’opera, come precedentemente annunciato, tratta della nascita della vita nell’universo, affiancandola al microcosmo di una vita familiare. Passando per il volto duro del padre (Brad Pitt) e per l’eterea pelle della madre (Jessica Chastain) il film confronta la forza distruttrice della Natura con la delicata essenza della Grazia, seguendo principalmente la crescita del figlio primogenito, i suoi timori, il suo rapporto col mondo e con la famiglia. Forte di un’estetica ai suoi massimi vertici, The Tree of Life si presenta come un’opera magna, totale, inclassificabile, più volte affiancata all’Odissea di Kubrick. Si passa in un attimo dal volto di un bambino alla creazione di pianeti e galassie, dove l’elemento allegorico diventa la colonna portante di un cinema completamente destrutturato.

Contenente tutta la poetica di Malick nella sua forma più elevata, la domanda che sorge spontanea è: “Questo regista ha ancora qualcosa da dire?”. Kubrick insegna che vi sono sempre metodi alternativi per raccontare cose, anche quando si è già detto tutto sull’argomento. Ma l’autore di Arancia Meccanica e Full Metal Jacket ha sempre lavorato molto sui generi, a differenza dell’anti-categorico cinema di Terry. Le prime impressioni contrastanti sul nuovo To The Wonder, come al solito, non aiutano a comprendere. Tutto quel che ci resta da fare è aspettare fine giugno, tenere da parte 10 euro e godersi in prima persona una nuova, intrigante, virgola malickiana. Il cinema dei sensi, degli opposti e dell’estasi aurea.

Dr. Lecter


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