Anche Il rifugio conferma, nel bene e nel male, la cifra cinematografica degli ultimi film di Ozon, soprattutto se si pensa a Ricky (2009) e 8 donne e un mistero (2001). Ovvero siamo in presenza di una apprezzabile cura nel girare, in questo caso in un digitale impeccabile, ottime scene, dove tutto lascia presagire interessanti sviluppi che vengono puntualmente frustrati. L’ultimo film del regista francese è una storia densa di spunti drammatici, in cui s’intrecciano le questioni dell’amore e della morte, passando attraverso i devastanti turbamenti della droga e dell’ipocrisia della famiglia borghese. L’impianto narrativo si arricchisce e si complica con le tematiche dell’adozione, della maternità, dell’omosessualità.
La protagonista del film, Mousse, è interpretata da Isabelle Carrè, realmente incinta durante le riprese, e questa situazione crea un percorso parallelo tra lo sviluppo del personaggio e la sua personale esperienza di vita. Mousse è una donna combattuta tra la fragilità della sua vita e il richiamo alla responsabilità derivante dalla maternità. Durante la gravidanza riesce a compiere una serie di esperienze che potrebbero ricostruire il tessuto emotivo di cui era stata fino a quel momento privata. Il suo nuovo percorso è privo di reti di protezione e ad ogni passo tutto è in gioco, ogni esperienza può distruggerla o rafforzarla. La gravidanza riesce a darle quella forza che probabilmente non ha mai avuto prima. L’ontogenesi del nascituro sembra produrre una nuova ontogenesi della sua struttura caratteriale. In questa fase conosce nuove modalità di amare, intrecciando la sua vita con quella di altre persone, spogliandosi gradualmente delle sue deboli sovrastrutture ‘da tossicodipendente’.
La storia è ambientata all’interno dell’opulenta borghesia francese, i cui personaggi sono corrosi e corrotti nei sentimenti, divorati dalla propria ricchezza. Da questo contesto asfittico Louis, il compagno di Mousse, ha cercato di fuggire attraverso l’eroina, trovando soltanto la morte. L’unico che sembra avere una possibilità di salvezza è suo fratello Paul che, probabilmente non a caso, è un figlio adottivo, come se il virus della borghesia fosse così potente da essere trasmissibile per via genetica. Ed è proprio attraverso Paul che Mousse, non appartenente a quella classe, riesce ad immaginare una nuova vita.
Purtroppo la contaminazione affettiva non è sufficiente a riportare Mousse ad essere pienamente padrona della propria esistenza e, alla fine, trova solo nella fuga il modo per sganciarsi dall’angoscia che la perseguita.
Lo sforzo e l’abilità di direzione del film, le difficoltà realizzative, dettate dalla maternità dell’attrice protagonista, la buona prova degli attori e l’elevata qualità fotografica avrebbero meritato un esito di sceneggiatura più significativo. Il finale del film struttura l’intera sceneggiatura in modo tale che non solo non comunica alcun messaggio, ma non offre neppure un interessante sguardo su vite lontane dalle nostre, nelle quali poter ritrovare riflessi della nostra umanità, poiché la struttura dei personaggi resta eccessivamente sclerotizzata, impedendo un reale processo di immedesimazione; l’unico personaggio realmente in movimento, Mousse, si trascina lungo una linea circolare che la riporta allo stato iniziale di incosciente ed immotivata irresponsabilità, fortunatamente privo di attrattiva.
Pasquale D’Aiello