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Il rilancio dell’Europa passa dal Mediterraneo: BloGlobal intervista Eric Jozsef.

Creato il 04 ottobre 2011 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Redazione di BloGlobal
BloGlobal ha incontrato Eric Jozsef, giornalista francese e corrispondente per l’Italia del giornale francese “Liberation” e del quotidiano di Ginevra “Le Temps”. Jozsef vive in Italia dal 1992 e ha dedicato molti libri alle vicende politiche del nostro Paese. Nell’incontro con lui, avvenuto a margine della conferenza “Il ritorno delle frontiere, l’Europa davanti alla sfida dell’immigrazione”, abbiamo tuttavia parlato di Europa. E il messaggio è chiaro: il rilancio del nostro continente è possibile solo attraverso politiche effettivamente condivise e che, inevitabilmente, pongono il Mediterraneo come tappa forzata.

Il rilancio dell’Europa passa dal Mediterraneo: BloGlobal intervista Eric Jozsef.

Durante l’incontro a Palazzo Massari sembra essere emerso chiaramente il fatto che parlare di immigrazione senza tener presente il contesto sociale-politico-economico dell’architettura europea è fuorviante e riduttivo. Date anche le differenze strutturali tra i 27 membri dell’Unione, non ritiene che sarebbe più giusto operare un ripensamento del concetto di Europa ed, eventualmente, riformulare la struttura istituzionale basandola su un’idea di “Europa a più velocità”?

Oggi esiste già un’”Europa a più velocità”. Questo è evidente soprattutto nel tema dell’immigrazionee lo si nota tanto nelle politiche interne alla UE (con il rifiuto di Olanda e Finlandia di accettare l’entrata di Romania e Bulgaria nell’Area Schengen), quanto in quelle che coinvolgono la proiezione esterna. E’ pur vero che esistono storie di immigrazione diverse tra i Paesi: ad esempio la storia dell’immigrazione francese è differente da quella spagnola, così come quella italiana – in particolare quest’ultima è molto più recente rispetto a quella francese e coinvolge solo determinate zone d’Italia –. Sono diverse, inoltre, le condizioni socio-economiche e religiose tra i Paesi. Anche gli andamenti demografici sono differenti: sempre prendendo ad esempio Francia e Italia, notiamo come il tasso di natalità, nel primo caso, è di 2.1 bambini/donna, contro il 1.3 del secondo, che tradotto significa che Roma ha bisogno più di Parigi degli immigrati. Esistono, inoltre, problemi fra Stati in materia di diritto di nazionalità, diritto del sangue e diritto della terra, il che produce delle difficoltà nell’armonizzare la disciplina in una politica comunitaria univoca.

Il punto è proprio questo. La mancanza di unità di intenti da parte dell’Europa nell’affrontare e nel risolvere il problema produce, dunque, delle complicazioni che possono tradursi sul piano di regolamentazione delle frontiere e sul piano del dialogo con i Paesi da cui provengono gli immigrati, con ricadute, infine, sui rapporti bilaterali commerciali tra Stati. L’esempio più concreto è stato il rapporto tra Libia e Italia: quest’ultima ha considerato la questione dell’immigrazione secondaria rispetto ai rapporti di collaborazione politica-economica fra i due.

Ma esiste un problema di immigrazione anche internamente alla UE e questo viene evidenziato dalle discussioni intorno al Trattato di Schengen, soprattutto con riferimento ai temi dell’immigrazione e della libera circolazione: alcuni Stati che vorrebbero modificare l’Accordo e renderlo più rispondente alle logiche nazionali di politica interna dei singoli membri. Proprio per questo motivo è necessario che l’Europa parli in maniera univoca su questi temi, al fine dievitare una sempre più imperante delegittimazione del potere delle istituzioni europee. 

Nel concreto, secondo Lei, quali misure la governance europea dovrebbe prendere in considerazione per contrastare il fenomeno dell’immigrazione?

Penso che l’attuale struttura europea, che è una governance di Stati ricchi e, a volte,  prepotenti, si stia muovendo verso dei cambiamenti. Penso appunto al ruolo di Frontex, che come aveva ricordato Lucio Battistotti (Direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea), può essere l’apripista per giungere ad una politica europea dell’immigrazione attraverso pochi ma chiari punti: ad esempio una politica unica sulle frontiere e una migliore gestione dei centri di identificazione. Questo potrebbe portare, appunto, ad una politica europea sul tema che non sia più espressione degli Stati ma, al contrario, dell’opinione pubblica europea. Tutto ciò può avvenire solo attraverso un superamento del classico deficit democratico di cui soffrono le istituzioni europee. Infatti, una riforma diqueste potrebbe favorire un maggior tasso di democratizzazione: l’esaltazione di Parlamento e Commissione Europea, a svantaggio di altre, come il Consiglio Europeo, espressione delle esigenze politiche degli Stati, garantirebbe una crescita complessiva dell’UE, svincolata dalle pressioni degli Stati, dunque, e più efficaci. 

A livello di proiezione esterna della UE, le crisi arabe e le discussioni sul riconoscimento di uno Stato palestinese all’ONU, hanno mostrato ancora una volta la mancanza di unità di intenti della PESC su temi così vitali. Crede che la politica estera continentale sia al momento adeguata a livello sovranazionale con l’Alto Rappresentante Catherine Ashton?

L’Europa manca di una politica estera europea unitaria, ma se si volge lo sguardo oltre oceano, verso gli Stati Uniti, notiamo come le posizioni di Obama verso la Palestina siano state nel tempo diverse. Infatti, nonostante tutti i buoni propositi, il Presidente Obama non è riuscito a mantenere le promesse fatte alla Palestina e ha dovuto soggiacere alla “Ragion di Stato”. Se dobbiamo discutere del ruolo dell’Alto Rappresentante Ashton, possiamo solo dire che è non è una persona adatta a ricoprire quell’incarico perché non sa come svolgerlo e non sa comemuoversi nella politica estera. Il vero problema è, quindi, comprendere il perché della sua elezione. Forse ciò si spiega con una scelta dei governi Merkel e Sarkozy di non dotare l’Europa di una politica estera europea unitaria. Questa è una volontà politica ben precisa. La medesima strategia è stata applicata, ad esempio, con l’elezione di un Presidente del Consiglio Europeoa discapito delle funzioni e dei poteri del Presidente della Commissione Europea Barroso – peraltro già lui fu una scelta di basso profilo –, proprio per depotenziare la sua carica istituzionale e politica. 

Restando in ambito mediterraneo, cosa pensa dell’attuale rinascita turca nell’area del Vicino Oriente e, soprattutto, crede che tale intraprendenza potrà produrre delle crepe nel rapporto tra Ankara e Bruxelles?

In Turchia Erdoğan ha scelto una strategia ben precisa, giocando una stessa partita su due tavoli: allorquando sente allontanarsi l’Europa, rilancia la trama della potenza regionale; viceversa, appena questa nuova potenza regionale crea timori nell’area, torna ad avvicinarsi verso l’Europa. In un certo senso vuole ritagliare un ruolo importante per il suo Paese e insieme indipendente dall’Europa, ma contemporaneamente non può farne a meno. Infatti, le mire turche guardano al mercato europeo e non al Vicino Oriente. Si tratta di un gioco strategico molto intelligente e molto abile, ma altamente pericoloso. Il vero peccato, però, è il fatto che l’Europa non sia riuscita a legare a sé la Turchia, evitando, dunque, questa strategia da parte di Ankara.

Probabilmente alcuni timori nei confronti della Turchia sono stati favoriti in Europa dalla diffidenza verso la religione musulmana, o dal fatto che, qualora Ankara dovesse entrare in Europa, la componente turca al Parlamento Europeo sarebbe di gran lunga la maggioranza (quest’ultimo punto, però, potrebbe essere facilmente aggirato attraverso un sistema di quote da applicare in tutti gli Stati membri).

Quel che più importa è che la Turchia accetti e rispetti i valori fondanti l’UE, in modo da poter farne parte. Per far ciò l’unica strada possibile è che Ankara superi i nazionalismi, i totalitarismi e crei un sistema economico-sociale che non permetta le pericolose derive xenofobe conosciute in passato. Infatti, quando parliamo di “Europa”, non disquisiamo di un’invenzione elaborata nel Settecento, ma di un prodotto politico della storia del Novecento e che affondale sue radici nelle esperienze terribili accadute tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale nel continente. Dire che l’Europa è un prodotto della tradizione giudaico-cristiana sarebbe un’ovvietà, ma non per spirito di laicità, bensì perché quello che importa dell’architettura europea è la sua visione politica. Anche le grandi menti che hanno lavorato alla sua nascita, come Adenauer, De Gasperi e Schumann, più che la tradizione cristiano-renana, hanno sposato un progetto fondato sulle esperienze del recente passato affinché non si riproponessero in futuro. Perciò se la Turchia accetterà questa visione politica di casa europea negando i nazionalismi, garantendo i diritti umani e i diritti delle minoranze etniche e favorendo uno vero Stato sociale, può solo essere la benvenuta in Europa, perché rappresenterebbe per tutti un’opportunità. 

A proposito di Turchia e di Mediterraneo, l’Italia si è molto spesa per l’adesione turca all’UE. Pensa, quindi, che l’Italia possa svolgere un ruolo politico di primo piano nel futuro delle politiche euro-mediterranee e, qualora così fosse, in che modo potrebbe svolgerlo?

L’Italia ha sempre avuto storicamente un’importanza e un ruolo particolare nel bacino mediterraneo, fin dai tempi di Andreotti con la politica araba. Il problema di fondo è che oggi, sia con il governo di Silvio Berlusconi, sia con i governi di centrosinistra, in Italia si è registrata un’assenza di politica estera. Questo lo si nota principalmente nei pilastri fondanti della politica estera italiana: il rapporto con gli Stati Uniti e la costruzione dell’Europa. Durante la Guerra Fredda, il rapporto fra Roma e Washington era considerato vitale per gli equilibri dell’epoca; oggi, invece, il legame si allentato, appunto perché è cambiato anche il contesto in cui l’Italia si muove. Anche il rapporto con le istituzioni europee è molto meno stretto perché il governo italiano ha dimenticato l’Europa. Più in generale, dopo la caduta del governo Prodi, gli altri governi di centro-sinistra, una volta entrati nell’Euro, hanno abbandonato l’europeismo. Sembra quindi che l’Italia non riesca più a capire dove vada l’Europa né si  sforza di cercarla. 

Alla luce, quindi, della strategicità della regione mediterranea, ritiene che il programma dell’Unione del Mediterraneo, così pensato nel 2008, possa andare incontro ad uno sviluppo concreto o rimarrà un semplice forum di idee?

Senz’altro l’idea di Sarkozy era bella, ma poggiava su due difetti: un’Europa modellata sullo stile francese e l’idea di una politica estera europea specchio della politica mediterranea araba della Francia. La prima idea non poteva e non può certamente essere gradita alla Germania; nel secondo caso, l’idea di Sarkozy non poteva funzionare proprio a causa di un’assenza di politica europea mediterranea. Il progetto, quindi, era buono, ma risultavano essere sbagliati gli strumenti e l’interpretazione data all’UDM.

Ritengo che questo progetto dovrebbe essere riformulato, cosicché ci si possa confrontare con una voce unica europea con i Paesi arabi della sponda nord e orientale del Mediterraneo. I punti critici dell’Unione del Mediterraneo potrebbero essere il problema palestinese e la crisi israelo-araba: è impossibile pensare ad una politica estera euro-mediterranea escludendo Israele. Credo, dunque, che questo progetto revisionato potrebbe essere una sorta di terza via tra le posizioni arabe e israeliane per risolvere il processo di pace mediorientale, in cui l’Europa ha l’opportunità rilanciare la propria azione politica internazionale.


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