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il ritratto perduto che Art Kane fece alla Mafia

Creato il 20 maggio 2014 da Loredana De Michelis @loridemi
il ritratto perduto che Art Kane fece alla MafiaLa prima settimana di Giugno del 1992, in Sicilia, a Terrasini, piccola località costiera vicino a Capaci, si tenne l'annuale “Settimana della fotografia internazionale”.
Il bellissimo e lussuoso residence “Citta del Mare” stava per essere invaso da prestigiosi fotografi, allievi di ogni nazionalità e decine di nervosissime modelle destinate ai setting più strani.
Ero arrivata a Palermo in treno, un autista del residence venne a prelevarmi alla stazione.
Nella mattina profumata e piena di sole saltai sull’automobile che imboccò l’autostrada mentre io mi godevo il panorama dal finestrino. Sapevo cosa era successo a Giovanni Falcone pochi giorni prima, ma non sapevo che stavo per passare nel luogo esatto in cui era stato ucciso. All’altezza di Capaci la strada divenne improvisamente deserta e silenziosa: l’autista manovrò per passare sul pezzo di asfalto a lato di un cratere enorme, che invadeva entrambe le corsie. Non c’era nulla intorno, nessuna persona, nessun rottame, neppure un cartello. Solo un nastro da cantiere, solo rocce. E un fine pulviscolo giallo stagnante che faceva ombra su tutto.
Non saprei definire meglio il silenzio greve di disastro irreparabile che attraversammo scivolando via piano. L’autista non disse nulla e continuò a guardare la strada. Io guardai il cielo cercando un segno di vita, un gabbiano almeno, ma era tutto vuoto.
Era la seconda volta che andavo a Terrasini. La prima era stata nel 1986, quando tra i fotografi invitati a tenere i workshop c'erano Franco FontanaJean-François Bauret e Art Kane.
Io, giovanissima, ero una delle tre modelle assegnate a Jean-François Bauret.
Art Kane stava in disparte e leggeva Stephen King tutto il giorno. Stupiva con le sue sortite alla ricerca di setting strani, partiva all’improvviso inseguito di corsa dai suoi allievi, a cena piegava i cucchiaini col pensiero, come gli aveva insegnato il suo amico Uri Geller, e metteva sempre in agitazione il personale.
Un giorno si fece assegnare l’autobus grande del residence, sequestrò tutte le modelle che riuscì a trovare a colazione e diresse la carovana proprio a Capaci, nella piazzetta principale. Lì fece scendere tutti e ordinò alle modelle di spogliarsi, attaccando a fotografare le espressioni basite dei vecchietti con la coppola, seduti sulle loro sedie di legno fuori dalla porta. Ricordo che mi vergognai e che mi irritò il fatto che questa gente, inconsapevolmente, interpretasse perfettamente lo scenario di una Sicilia che credevo persa nei film d’epoca.
Non so dove siano finite le centinaia di diapositive che ritraggono quel momento, ma ne vidi qualcuna subito dopo lo sviluppo, restandone affascinata.
Dopo il raid, che fu brevissimo, corremmo al residence e Art Kane mi disse “Tu, sei ballerina vero? Mi serve una ballerina per domani, ci vediamo al parcheggio alle 5”. Il giorno dopo, all’alba, in un casale abbandonato della campagna siciliana, mi fece appendere con una corda al tetto di un fienile. I fotografi che anelavano ad una lezione sui segreti della potenza artistica di Art Kane si ritrovarono a fare le comparse: spingevano il mio corpo da impiccata affinchè dondolasse e loro ci camminavano sotto, andando di qua e di là.
Anche di queste foto, che non potevo certo chiedere come souvenir, non ho mai conosciuto il destino.
Rimessa a terra dopo ore, Art Kane mi si avvicinò furtivo e mi disse: “Mi servi ancora al tramonto, tu e l’autista”.
A bordo di un piccolo pulmino blu, con autista terrorizzato, volle che ci si dirigesse a caso sulle colline e si mise a leggere Stephen King sdraiato sul sedile. Io ero molto a disagio e comiciai a truccarmi con uno specchietto da cui ogni tanto controllavo i suoi movimenti.
Lui vide un campo pieno di fiori gialli e disse all’autista di fermarsi sulla strada e di togliersi dai piedi. Si mise ad osservare, aspettando.
La strada era deserta. Con la giacca scura dai bottoni dorati e il berretto con la visiera, che ora teneva in mano contro il petto, l’autista sembrava un becchino, e si mise a raccogliere fiori nel campo, pochi metri più in là. Art Kane mi disse: “Non mi piace come ti trucchi, tu sei Cenerentola, non la Mafia” e mi spalmò con le mani sulla faccia i chili di matita nera e di mascara che mi ero messa, riducendomi ad una maschera.
Montò un Fish Eye sulla macchina fotografica, scese dal pulmino, lasciò la porta del guidatore aperta e mi ordinò di incastrarmi tra il cambio e i sedili, con la testa sotto la pedaliera.
Entusiasta e saltellante, scattò immagini deformi di quello che sembrava uno strano incidente, con la vittima contorta in una posizione innaturale e un autista-becchino sullo sfondo, intento a cogliere fiori nella luce rossa del tramonto.
Anche questo durò pochi minuti, poi ripartimmo per tornare al residence.
Art Kane si mise ad ammirare la campagna, era la prima volta che lo vedevo guardare fuori dai suoi libri.
Senza girarsi mi disse: “Queste le dedico alla vostra tradizione della Mafia, Cinderella: qui io la sento. L'odio e il coraggio restano nei luoghi per tanto tempo, anche dopo la morte di chi li ha provati.”
Non ho mai visto quelle diapositive e non ho mai saputo che fine avessero fatto.
Art Kane si è sparato, il 3 febbraio 1995.

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