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Il tappeto volante

Da Pamirilla

 

dipinto da Nicolas Roerich

   dipinto di Nicolas Roerich

 

Non tornerà.
Nonostante le Stelle, le Profezie e le Carte non tornerà.
Forse è colpa mia che ho perso il sasso magico o forse è perché ho perso le parole giuste.
Comunque non tornerà.

È un amore che ha perso la strada.
Probabilmente era solo qualcosa che si fingeva amore, se ha perso la strada così facilmente.
Senza lottare, senza reclamare, senza battere ciglio.

Piango mentre dormo e le lacrime mi bruciano la pelle del viso. Dormo poco e mi sveglio con la faccia che fa male, il cuore che fa male, le gambe che tremano.
Vorrei solo smettere di singhiozzare e smetto ma mentre l’acqua calda della doccia mi scivola addosso piango di nuovo lacrime, acqua e sapone.
So che c’è uno sbaglio ma non sono certa di quale sia. Mi riaggiusto la faccia, nuda davanti allo specchio, sperando che prima o poi torni normale, sperando che non resti tutta questa amarezza che ci si è posata sopra come polvere appiccicosa.

Fuori è ancora buio.

Il portone si chiude alle mie spalle sbattendo, increspa il silenzio del buio. Buio perfetto al centro ma tremolante intorno ai lampioni, un buio umido e profumato. Tiro su col naso commiserando la mia tristezza e immergo un piede e poi l’altro nel buio e nella notte. Attraverso la strada, entro in una viuzza stretta e nascosta, qui ci sono meno luci e l’aria è satura dell’odore erbaceo che le piante soffiano fuori silenziosamente mentre dormono. Sulla destra c’è il negozio dei tappeti arabi. Non ha le serrande chiuse perciò dai vetri è possibile, schiacciandoci bene il naso contro, seguire con gli occhi gli arabeschi e le comete, le geometrie e le prospettive insolite impresse nella trame dei tappeti. Alcuni sono adagiati sul pavimento e si coprono parzialmente l’uno con l’altro, altri in verticale abbandonano le frange mollemente verso terra; a ridosso della parete in fondo al negozio e sul lato pile e pile di tappeti formano torri di filo e colori. Ma il tappeto che cerco con gli occhi è quello rosso, quello lì afflosciato sul lato sinistro accanto ad una pila di scendiletto. Quello è un tappeto volante. Mentre mi torco per guardarlo meglio scivolo e cado sulla porticina d’entrata che si apre spinta dal mio peso. Una cosa strana, la porta aperta di notte, mi dico. Ma mentre entro timidamente dentro il negozio vedo il tappeto fremere, ci salto sopra e prima di avere il tempo di riflettere su cosa stia facendo sento l’aria fredda della notte schizzarmi sulla faccia, i capelli scossi dal vento, aggrappata alle falde del tappeto volo sopra la notte, sopra i palazzi, sopra le false promesse di un finto amore.

I grandi pini di Roma stretti in silenzioso gruppo su Forte Antenne si srotolano lungo i larghi viali della città in file regolari ma scomposte, storti e pencolanti su un lato o sull’altro come ombrelloni fissati male nella sabbia di un’ipotetica spiaggia. Le strade deserte con le macchine ammucchiate ai lati, parcheggiate con la disperazione e con la forza tra i cassonetti della spazzatura semi aperti. Il fiume scorre silenzioso sotto i ponti di pietra, riflette le luci delle cupole e dei palazzi antichi. C’è odore di fuoco.

Perdiamo quota.

Più ci avviciniamo al suolo più sento crescere in me la paura di dover rimettere i piedi in terra e mi sento persa all’idea di essere scaricata chissà dove, lontano da casa, da uno stupido tappeto volante troppo pigro per continuare a volare. C’è sempre odore di fuoco. Più intenso, ora.

Il tappeto corre a solo un metro d’altezza sul marciapiede lungo il fiume, parallelo al suolo e ora vedo che ci stiamo avvicinando ad un gruppetto di persone sedute intorno ad un falò. Mentre stiamo per raggiungerli il tappeto volante rallenta e ferma il suo volo vicino a loro.

Nessuno si stupisce, qualcuno si volta e mi sorride. Una signora dal viso antico e l’espressione dolce mi invita a sedere, mi stringe la mano e mi accompagna vicino al fuoco. Un uomo alto e sottile mi porge una tazza colma di una bevanda calda e speziata. Un uomo dall’aria stropicciata e selvaggia suona il violino ed in ogni suo muscolo guizzano note, percuote la musica come un domatore di tigri che schiocca la frusta. Ha il fascino magnetico ed inevitabile di un violinista selvaggio e stropicciato. Gli altri tengono il tempo con le mani o battendo i piedi o solo ridendo.

Un signore grasso mi guarda con gli occhi che ridono ed una smorfia di affettuoso scherno, prende la tazza vuota dalle mie mani e mi dice “Gli amici si vedono nel momento del bisogno. Tu hai bisogno?”. Scrollo le spalle e piego la testa di lato, la desolazione mi incrina le labbra. “Allora spero che tu abbia dei buoni amici!” dice lui e poi scoppia in una fragorosa risata. Tutti ridono e battono il tempo della musica con le mani. Qualcuno mi dice “Che sarà mai! Ridi che ti passa” o “Canta e non ci pensare” ma la signora che mi ha fatto sedere accanto a lei vicino al fuoco mi abbraccia e mi e mi avverte che mi stanno solo prendendo un po’ in giro. Un uomo dall’aspetto gradevole, vestito con sobria eleganza, mi siede vicino dal lato apposto della signora dal viso bello e mi copre le spalle con una maglia pesante perché nonostante il fuoco sento freddo. Mi racconta che questa è la terza volta che ricomincia da capo. Per la terza volta ha perso tutto ma ora ha ricominciato da capo. “Ora va bene” mi dice. Lo dice come per rassicurarmi.

Il giovane pensieroso che attizza il fuoco è uno scrittore per questo è sempre assorto in un pensiero che sembra sfuggirgli continuamente, il tipo con i capelli neri e le mani grandi lavora ai mercati generali, tra un po’ andrà a scaricare casse di frutta anche se la notte ancora non è finita. La donna senza una mano seduta su un gonfio cuscino di cotone apre una scatola di latta gialla e distribuisce biscotti, li ha fatti lei. Con una sola mano. Prima di perdere la mano i suoi biscotti erano più belli ma non buoni come ora che ha da metterci dentro più dolore e più sapienza. Il violinista smette di suonare e si accende una sigaretta, fa per prendere una tazza di quell’infuso speziato che ho bevuto poco fa ma inciampa nelle stampelle di qualcuno, lasciate negligentemente in terra. Il violinista si arrabbia con lo storpio dandogli dello storpio e quello gli risponde per le rime dicendo al violinista di andare a suonare nei ristoranti per turisti invece di straziare i timpani degli amici. Il violinista lo manda a quel paese in maniera elaborata e colorita ma riempie una tazza anche per lo storpio e gliela porge. Chinandosi gli da una pacca sulla spalla e rimette le stampelle in ordine vicino al proprietario. Lo storpio prima di essere uno storpio era un giovane bellissimo ma sempre triste. Ora si sente triste solo quando avrebbe tanta voglia di farsi una corsa a perdifiato sul mare o nei boschi però non può farlo perché ha perso le gambe. Allora scrive musica e quando qualcuno ascolta la musica scritta da lui non può fare a meno di commuoversi e piangere finché ha lacrime senza nemmeno capire perché. E quando la musica termina, chi l’ha ascoltata ha come la sensazione di aver corso a perdifiato per chilometri lungo una spiaggia bagnata dall’alba o in bosco profumato dal muschio e dalle felci. Questo mi dice la donna dal bel viso seduta al mio fianco. Mi dice anche che il violinista e lo storpio si vogliono bene come fratelli e si insultano a vicenda per tenere sveglio il loro affetto e far ridere gli altri con le loro frasi colorite.
Poi il giovane che lavora ai mercati si alza per andare al lavoro ed il signore ben vestito che mi ha prestato la maglia aiuta una donna anziana a rimettere in ordine le tazze dove abbiamo bevuto e poi le dice che la porterà con sé perché lei ha appena perso la sua casa e non sa dove andare. Lei però sembra tranquilla anche se ha perso una cosa così importante. Io la guardo e lei mi sorride mitemente. Mi sorride felice come una che abbia trovato qualcosa invece di aver perso qualcos’altro.

Vedo da lontano che il buio sta scolorendo ed il tappeto volante fino ad ora afflosciato su se stesso in un mucchietto inerte è scosso da un brivido. Allora ho improvvisamente paura di venire scoperta e penso che dovrò tornare nel negozio di tappeti in fretta e rimettere tutto a posto prima che sia tardi.

Il violinista mi regala il suo archetto perché io possa picchiare, all’occorrenza, i pensieri tristi e le paure.
La donna senza una mano mi regala la scatola gialla che conteneva i biscotti per ricordarmi che la ricetta migliore non può fare a meno delle lacrime.
La signora dal viso bello mi abbraccia forte e mi ringrazia di essere stata in loro compagnia. Mentre mi alzo in alto cercando l’equilibrio sul tappeto volante tutti mi salutano con la mano. Nella tasca del cappotto mi ritrovo un pezzetto di carta rigida. Sopra lo scrittore ci ha scritto una breve poesia per me.

Le luci della città sembrano fiammelle di candela. Gli angeli sul ponte di pietra trattengono il sospiro per non disturbare l’alba che nasce.
Inspiro più aria possibile. Il profumo del giorno nuovo mi provoca un breve lampo di gioia poi sento che vorrei piangere di nuovo e allora agito in aria l’archetto del violinista. Il tappeto volante sfreccia sopra la città con me sopra che ho paura di cadere ma sono felice di volare così, come fossi vento, come fossi profumo, come fossi felice, come fossi stata amata per davvero.

Quando il sole comincia ad alzarsi sopra i palazzi del mio quartiere il tappeto è già tornato accanto alla pila di scendiletto, innocuo ed immobile come un comune tappeto rosso.

A casa apro una scatoletta per il gatto ma lui mangia solo un boccone poi miagola per venirmi in braccio e ci addormentiamo acciambellati l’una intorno all’altro.


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