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Il Topo è morto, il Colfondo è vivo

Da Trentinowine

Shareèè

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Torno su questo argomento, dopo la gragnuola di commenti tempestosi al mio post di ieri “Terroir Tropicale”. E lo faccio, per cercare di spiegare meglio. Per cercare di farmi capire. Per cercare di chiarire. Poi sarà quel che Dio vorrà: anche le aule di tribunale, se qualcuno pensa davvero che quello sia il luogo dove risolvere dispute di questo genere.

Dunque, tutto cominciò a natale, quando mi ritrovai in casa una cassa di Colfondo. Di cui continuo a non rivelare l’etichetta, perché non è nello stile di questo blog, né nel mio stile personale, procurare guai inutili ai piccoli produttori: sono dell’idea, al contrario, sia utile stimolarli a crescere e magari a non commettere errori. E lo scrivo da consumatore, più o meno consapevole. Così come faccio, da consumatore, quando al bar mi servono un caffè troppo tostato o bruciato. Così come faccio al ristorante quando mi arrivano in tavola tagliatelle troppo sapide. Non telefono al 113, mi limito a farlo notare a chi mi sta davanti, augurandomi, da consumatore, di poter tornare di nuovo e di poter dire: questa volta ho speso bene i miei soldi.

Dicevo delle sei bottiglie di natale. Ho aspettato qualche giorno ad aprirle e finalmente la settimana scorsa ne ho affrontata una. Il Colfondo non è fra i miei vini preferiti, lo ammetto e lo premetto. Eppure ogni tanto mi piace berlo: mi pare un vino simpatico a volte anche sorprendente. Quello di Bele Casel lo trovo buono e lo bevo volentieri. Quello di Casa Belfi, mi sembra originale: molto agrumato, limonoso. Interessante nella sua particolarità.

Insomma, non è una tipologia di vino che mi fa impazzire, ma non mi ci accosto con pregiudizio. Con quelle sei bottiglie (alla fine, con quella di ieri sera, ne ho aperte quattro) è andata diversamente: non sono riuscito a finire il primo bicchiere. La sensazione immediata è stata quella che sapete: l’evocazione, poco scolastica e irriverente, del topo morto. Avrei potuto scrivere altro. Chennesò: frutta polposa molto matura, albicocca maturata eccessivamente, fragranza pungente di lievitazione ancora in corso, solido sentore di feccia. Ma sono un consumatore medio, non un sommelier. E mi è venuta in mente la fermentazione cadaverica. Quindi il topo. Morto.

Possono capitare bottiglie come queste. Come ha scritto qualcuno, commentando su Facebook. Può capitare per tante ragioni: cattiva conservazione, imperfetto svolgimento del lavoro dei lieviti e tante altre imperfezioni, magari indotte da una fermentazione provocata con mezzi artificiali e non con temperature naturali. Il mio giudizio, e in FB lo ho precisato, era legato alla mia particolare esperienza con le bottiglie che avevo in casa e non mi sono mai sognato di esprimere un giudizio generalizzato su una tipologia di vino. Fra l’altro ne ho assaggiato uno trentino uscito da poco (Vallarom) e indicato in etichetta come Metodo Familiare, che mi ha perfino messo di buon umore in una giornata nerissima, che era cominciata con una scarpa (tacco 12) lanciatami in testa di prima mattina. Insomma la mia impressione, originariamente in Facebook e in Twitter, era legata a queste bottiglie. Non al metodo e non alla Glera. Ma a quelle sei bottiglie (dopo il quarto tentativo di ieri sera, oggi sono due) che avevo in casa: quando ieri ho scritto “aprirò un’altra di quelle bottiglie-topomorto”, mi riferivo appunto a queste, non all’universo mondo del Colfondo.

Siccome questo blog e i social collegati, sono un po’ un diario, personale e collettivo, di viaggio frai vini, ma non la cerimoniosa sala d’assaggio del sommelier, ho scritto questa mia sensazione in FB. Ho fatto bene, ho fatto male? Penso di aver fatto bene. Ne è nata anche questa discussione; e le discussioni, al di là dell’epilogo che possono avere, credo siano utili. A tutti.

Nei giorni successivi ci ho ripensato e ho provato a stappare altre bottiglie sempre della stessa partita. E mi è tornato in mente quel mio viaggio nella Bassa Trevigiana di qualche anno fa. E così è nato il post di ieri. Dove ho cercato di allargare il discorso al concetto di terroir. Sapendo bene che questo è un argomento scivoloso e sdrucciolevole. Anche se pare che in Portogallo qualcuno abbia addirittura messo a punto dei modelli scientifici per misurare il Terroir. Ma io continuo a pensare che con questa categoria si entri sempre in una dimensione di giudizio e di valutazione molto personali. E molto soggettive. Comunque, senza immaginare di dare lezione ad alcuno né di spiegare i segreti della vita, nel post di ieri ho provato a pensare, e davvero in forma interrogativa soprattutto per me stesso, se possa esistere una relazione fra un paesaggio e una condizione climatica e l’uva e il vino che ne sono figliati. Probabilmente sì. E credo se ne possa discutere liberamente anche a proposito del Colfondo e della magnifica terra del Piave. E tuttavia, probabilmente, non è il caso di quelle sei bottiglie (ora due) che ho in casa. Nate male, fin dall’inizio; al di là del paesaggio e del terroir quasi lagunare. Per questo dico: il topo a casa mia è (resta) morto, viva il Colfondo. Che invece è vivo. E penso a quello di Luca Ferraro e a quello di Maurizio Donadi. E anche a quello di Filippo Scienza. Perchè questi sono quelli che conosco meglio.

Detto questo e augurandomi di essere riuscito a spiegarmi, mi fermo qui. Vorrei dire altre cose, circa la libertà di critica del consumatore, circa l’opportunità, secondo me, di cominciare a smitizzare questo benedetto vino, che alla fine è solo“do piche de ua”. Se avessi scritto che l’odore del sapone di marsiglia mi fa schifo, credete che qualcuno si sarebbe lamentato? Ma con il vino è diverso, perché lo abbiamo mitizzato e caricato di troppi valori (im)materiali e simbolici. E forse dovremmo iniziare a fare qualche passo indietro. Per il bene di tutti e soprattutto per il bene del vino. Insomma avrei da dire ancora un sacco di cose. Ma mi fermo qui: si sta avvicinando l’ora della colazione e mi aspetta in tavola una bottiglia di Annamaria Clementi. Capirete anche voi che di fronte ad un Franciacorta come questo, sarebbe criminale aspettare.

Buona domenica a tutti. Anche al tenente Drogo e alla Fortezza Bastiani in subbuglio, sebbene nemmeno questa volta i tartari si stiano affacciando all’orizzonte. Almeno credo.


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