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Il verbo studiare

Da Marcofre

Quando scrivi, c’è almeno un altro verbo che ti farà compagnia, oltre a quello “pensare”.

Si tratta del verbo “studiare”.

Non mi riferisco solo alla necessità di conoscere meglio un personaggio, capire chi è, cosa fa e come si muove. Ogni frase, qualunque parte di un dialogo porta con sé una sfida. Occorre cioè fornire al lettore un quadro onesto di cosa succede e questo non significa soltanto una prosa efficace; bensì di valore. Vale a dire?

Come in tanti sanno, non ci sono regole. Possiamo solo provare a buttare giù qualche riflessione, fornendo a grandi linee la direzione, mentre il raggiungimento della meta e la fatica è tutta del singolo.

Allora immaginiamo di avere un personaggio che fa qualcosa di bizzarro. Non possiamo e non dobbiamo imporci ma restare sulla soglia, rispettosi della sua autonomia. Però quello che gli accade, se a lui è spesso oscuro, e lo comprende mentre procede la storia, al lettore deve essere presentato nella maniera più efficace possibile. Credo infatti che la difficoltà sia rendere evidente a chi legge che succede qualcosa perché scrivere è comunicare, prima di ogni altra cosa. E in una storia dovrebbe accadere qualcosa: un evento oppure un incontro che entra in relazione (o conflitto) col protagonista.

Lo studio è un termine che tanto per cambiare, ci arriva dal latino: significa aspirare a qualcosa. Superfluo aggiungere che ci si deve impegnare perché non arrivano premi o regali soltanto aspirando.

Il verbo studiare invece tra i suoi significati ha quello di… osservare. O se preferisci: indagare. Perciò un autore non può limitarsi a mettere su carta quello che succede a un personaggio. Innanzitutto perché la sua prosa, se agisce in quella maniera, rischia di apparire sciatta, privo di mordente. Non sta facendo la diretta di un evento, dove sono consentite licenze “poetiche” perché l’immediatezza delle circostanze quasi le impone. Inoltre, la parola è potente, ma solo se si riesce a maneggiarla con la necessaria perizia e cautela. Se l’errore è sempre possibile (anche i Grandi hanno sbagliato dialoghi, e non solo quelli), l’attenzione, la cura per ogni dettaglio appare come una buona e necessaria “stella polare” per non perdere la direzione giusta.

Come sa chi bazzica la letteratura, una storia non è ben chiara nemmeno (o soprattutto?) a chi scrive. Potrei citare ancora una volta Flannery O’Connor che confessava di partire da un’immagine e poi d’un tratto, mentre scriveva, tutto si scioglieva nel finale migliore. Però attenzione: questo secondo non accade per caso, per un colpo di fortuna. La narrativa non ama il caso, almeno quella di qualità, destinata a vivere e a resistere al tempo che macina. Né la fortuna perché si affida a qualcosa di più sicuro: il genio (Tolstoj, Dickens o Dostoevskij), il talento per gli altri (ma è sempre di scarsa quantità, e ferocemente antidemocratico).

Però lo studio del personaggio, delle parole, di quanto accade: gli incontri, i dettagli, messi in luce dal passaggio del protagonista, o dei personaggi secondari, hanno bisogno di una calma, di un silenzio e di una attenzione del tutto particolari. Probabilmente essi ne sono consapevoli, ma non sempre e non in maniera davvero evidente; però un autore è quello che mostra la relazione, l’intreccio, l’influenza che fatti e persone stabiliscono tra di loro.

Scrivere è un problema. Matematico, e qui casco male perché ho sempre detestato questa materia, e questo spiega perché non sia mai riuscito ad arrivare a pubblicare qualcosa di decente. Inoltre, mentre una materia scientifica come la matematica ha le sue regole fisse, immutabili, la narrativa si fa beffe delle regole. Al massimo riesci a capire che devi pensare, e studiare, per il resto: arrangiati. Se pensavi che fosse tutta discesa, perché “Faccio quello che mi pare, scrivo quello che voglio”, ti stai sbagliando. Sei sul libro paga di un dittatore: si chiama Parola, e mena.


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