Quando si scrive, dovrebbe essere chiaro che il pericolo non è quello di consegnare il frutto del proprio lavoro a lettori superficiali, o editori disattenti.
Questo c’è sempre stato e sempre ci sarà, non c’è scampo.
Il pericolo sonnecchia nelle parole scelte in maniera superficiale. Ho già scritto in passato a proposito del limite che la scrittura racchiude: è uno strumento che offre meno flessibilità rispetto all’oralità. Questo dovrebbe imporre a chi maneggia le parole un’attenzione non tanto per il pubblico, ma per lo scritto appunto. Riuscire a creare una storia efficace e di valore vuol dire prendersi tutto il tempo necessario per utilizzare la debolezza della parola a proprio vantaggio.
Ma significa anche ricondurre il centro di tutto sulla storia appunto. Spesso si parla di personalismi eccessivi in politica o altrove: eppure c’è un rischio analogo anche nella narrativa. Si punta tutto o molto, sull’autore, lo si celebra e lo si coccola. E la storia? Sembra non importare, prima di tutto a chi scrive, e poi anche a chi legge, certo.
Qualcuno potrebbe osservare che il mondo è zeppo di autori e lettori che questa preoccupazione non l’hanno mai avuta. Vero, ma questo non significa nulla. D’altra parte, sarebbe ridicolo pretendere che costoro agiscano in maniera differente. C’è spazio per tutti, e comunque ciascuno alla fine è libero di scegliere quello che vuole. E spesso l’autore è un bambinone insicuro, che ha bisogno di rassicurazioni. Di essere al centro, anche a scapito del romanzo.
Quello che occorrerebbe tenere in considerazione risiede appunto nella natura cagionevole della parola. Tutti parlano della sua potenza, e di certo questa esiste ed è visibile. La vita della nostra società si basa su parole scritte. Pochi concentrano la loro attenzione sulla difficoltà che presenta confezionare una storia almeno efficace. Non bisogna esserne sorpresi; esiste infatti una scarsa attenzione alla parola, vista come mezzo per riempire il silenzio. Oppure per elevare chi la usa al rango invidiabile di personalità.
In entrambi i casi non abbiamo la capacità di riconoscere alla parola un ruolo centrale, ma solo quello di comparsa, al massimo di spalla, come succede quando si assiste a uno spettacolo di cabaret. C’è il comico, e la sua spalla; certo, quest’ultima deve essere all’altezza, spesso è la pedina fondamentale senza la quale il comico non va lontano. Ma se questo funziona appunto per un comico, rischia di essere catastrofico quando si scrive.
La parola occupa il centro. Quindi viene il protagonista, che non è un’entità vuota, da riempire, al contrario. Infine, buon ultimo, l’autore.
In un periodo storico dove tutti devono essere protagonisti, ammettere che con la scrittura si diventa gregari, è dura. Almeno ci fosse una ricompensa adeguata, ma spesso non c’è affatto. Per fortuna esistono altri lidi dove poter soddisfare il proprio ego, giusto?