di Costantino Esposito, docente di filosofia all’Università di Bari
da Avvenire, 19/10/12
La grande ipotesi di lavoro che Benedetto XVI ha lanciato alla Chiesa e al mondo intero, aprendo l’Anno della fede, è come uno sguardo inedito sul nulla. Il nulla che pervade la cultura contemporanea e che si annida nelle pieghe della nostra esistenza, tutte le volte che avvertiamo il venir meno del significato, il vuoto di senso che si nasconde dietro la grande “scena” del mondo. Già avere questa percezione non è affatto scontato: essa è possibile solo a chi avverte tutto il bisogno di senso e tutta l’esigenza del vero che costituiscono la nostra ragione. E l’avverte proprio perché è stato “preso” dal significato, ha visto la presenza del Logos, ha ascoltato la sua voce.
Il deserto avanza, affermava Friedrich Nietzsche già a fine Ottocento, indicando l’inarrestabile tendenza della storia «metafisica» dell’Occidente all’esaurimento dei suoi valori e battendo con il suo «martello» sugli idoli per auscultare il vuoto che si nasconde dentro i simulacri. Ma è possibile riconoscere e attraversare davvero questo vuoto, e coglierne tutta la drammaticità, senza stare in qualche modo su un “pieno”? È possibile guardare questo deserto, e riconoscerlo come tale, senza vederlo da un luogo che deserto non è? Torna alla mente ciò che ha scritto Emanuele Severino: «Lo sguardo che vede crescere il deserto non appartiene al deserto. Sta “dall’altra parte”. E in esso è riposta ogni possibilità di salvezza» (da Téchne, 1979). Ma questo non appartenere al deserto, che permette di vedere che cosa sia veramente il deserto, nella riflessione del Papa significa che il deserto diventa una formidabile occasione per avvertire il bisogno di essere che ci segna come enti finiti, e l’esigenza dell’essere come apertura a un significato più grande di noi stessi e del mondo. Come ci siamo sentiti dire l’11 ottobre in Piazza san Pietro, «è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere».
La fede cristiana, qui, non è proposta come una fuga spirituale dal deserto, e nemmeno come il mero distacco o la dura rinuncia alle “tentazioni” del mondo (come pure alcune volte si è tentati di sublimare il deserto), ma come l’impegno più semplice e diretto con la sete di vita che ci muove: «Così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza». Ogni qual volta questa sete vien fuori, è come se il nulla fosse squarciato, e la voce afona di chi cerca il significato di sé e del mondo si facesse udire.
Il dramma del nichilismo contemporaneo è quello di non riconoscere più e non avvertire la mancanza da cui pure esso era nato. L’ipotesi di Benedetto XVI è che solo una risposta presente può far riconoscere questa attesa: la fede non è la mera “credenza” in qualcosa che non si vede, ma è la possibilità di vedere quello che c’è e di cui spesso non ci accorgiamo nemmeno. Perciò l’Anno della fede è stato proposto come «un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale», cioè il fatto sorprendente che il «Senso ultimo» si è reso carne, ha parlato – parla – e chiede di essere ascoltato e riconosciuto dal nostro bisogno. Solo per questo l’uomo che vive la fede può portare in sé e con sé, in una lieta drammaticità, tutta l’inquietudine del mondo.