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Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino (III° parte): le cinque vie

Creato il 01 maggio 2012 da Uccronline

Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino (III° parte): le cinque vie
 

di Luca Ferrara*
*dottorando in scienze filosofiche

 

Nel primo articolo abbia posto le premesse per un possibile confronto tra Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino, mentre nel secondo articolo abbiamo introdotto le due quaestiones dell’Aquinate, all’interno della seconda sono contenute le celebri “cinque vie” per la dimostrazione di Dio.

 

La prima via.
La prima via muove dalla semplice attestazione dei sensi che vi sono delle cose nel mondo che si muovono, perché mutano, divengono. Ora,, ogni cosa che si muove deve essere mossa da altro, ma bisogna arrivare ad un primo motore immobile altrimenti si procederebbe all’infinito. Tommaso intende il movimento come mutamento, come passaggio da una condizione meno perfetta ad una più perfetta. L’ente diveniente è composto di atto e potenza, ragion per cui il mutamento deve essere inteso come passaggio dalla potenza all’atto. Tale passaggio non può essere attribuito all’ente diveniente, perché non è possibile che una medesima cosa sia nel medesimo tempo in potenza e in atto, considerata sotto lo stesso aspetto. Tommaso porta l’esempio del legno che in potenza è caldo e lo diventa in atto tramite il fuoco che è caldo in atto. Atto e potenza, all’interno del ragionamento di Tommaso, indicano due possibilità, due modi di essere diverse di un ente, rispetto ad una medesima proprietà o capacità: l’atto si ha quando tale capacità viene esplicitata; mentre la potenza si ha quando tale capacità permane allo stato latente. Ora è necessario che vi sia un ente che sia totalmente in atto che non possieda nessuna potenzialità e tale essere non può che essere Dio. Ma perché procedere all’infinito non è accettabile dal punto di vista logico di Tommaso?[1] Perché, andando all’infinito, non si giungerebbe mai ad un principio e senza principio non si può concepire nessuna origine, nessun inizio: è il finito che in virtù della sua intima natura reclama l’infinito come ciò che lo completa. L’impossibilità di procedere all’infinito nella ricerca delle cause, in quanto ciò è contraddittorio, è un’altra delle condizioni logiche su cui si regge l’intero plesso speculativo delle cinque vie.

 

La seconda via.
Tommaso nel dimostrare l’esistenza di Dio, nelle seconda via, prende le mosse dal concetto di causa efficiente. Per causa efficiente (Tommaso qui segue Aristotele che suddivideva le cause in quattro categorie: efficiente; formale; materiale; finale) intende la causa che determina un effetto fisico. Facciamo un esempio per comprendere meglio il pensiero dell’Aquinate: se crolla un edificio (l’effetto), tale evento è stato determinato dalla dinamite (causa efficiente). Ora, afferma Tommaso che i sensi ci attestano che vi è un ordine tra le cause efficienti. Infatti, a sua volta la dinamite (riprendendo l’esempio) è l’effetto di un particolare preparato chimico (causa efficiente), a sua volta questo preparato deriva dalla sintesi di nitroglicerina e farina fossile, ma la nitroglicerina è stata causata dalla composizione di nitrocellulosa e glicerina e così via. Ciò che nota Tommaso è il mutarsi, nella serie delle cause efficienti, della causa efficiente in quanto tale in effetto determinato da un’altra causa efficiente, ma non si può procedere all’infinito nella serie delle cause per due ragioni. In primo luogo è “impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; perché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile”[2]. Il ragionamento di Tommaso è fondato in parte su ragioni logiche e in parte su osservazioni constatabili empiricamente. Infatti, è contraddittorio pensare il “prima” logico (la causa) come successivo al “dopo” logico (l’effetto): l’ordine della serie non può essere invertito senza mutare la causa nell’effetto. Un cosa che causa è sempre prima di una cosa causata. Dunque, una cosa, per autocausarsi, dovrebbe essere prima di sé, ma ciò è impossibile da un punto di vista ontologico, oltre che temporale, perché l’ente-causa deve essere nel medesimo tempo l’ente-effetto: l’ente che è prima dovrebbe essere l’ente che è dopo. Inoltre, ciò condurrebbe ad una povertà ontologica, perché verrebbe meno il diverso, nella misura in cui il medesimo possedesse la capacità di auto prodursi. Dal punto di vista empirico ciò risulta maggiormente evidente: nessuno ha mai visto il crollo di un edificio prima o contemporaneamente all’esplosione[3]. In secondo luogo, non si può proseguire avanzando all’infinto nella ricerca dell’origine della serie delle cause efficienti, altrimenti non ci sarebbe un inizio e se non ci fosse un inizio non ci sarebbe una causa prima e senza tale causa verrebbe la catena delle cause intermedie che giunge fino all’effetto. Dunque c’è una prima causa efficiente non causata (ma ciò non implica né che sia auto causata in virtù di quanto detto sopra, né che agisca nel tempo, altrimenti sarebbe invischiata in una serie temporale e sarebbe poi giocoforza proiettarla all’interno di una rete di nessi causali), ed è quella che tutti riconoscono essere Dio.

 

La terza via.
Nella terza via, Tommaso muove le sue considerazioni ponendo in relazione la natura contingente degli enti, delle cose: “le cose che possono essere e non essere” e la natura del necessario. Ciò che può non essere ed è, un tempo non esisteva, ma questa è la peculiarità di tutti gli enti naturali, i quali iniziano e finiscono, venendo generati e corrompendosi poi. Ora se tutti gli enti fossero di tale natura contingente (dovuta al loro poter non essere ed è per tale ragione che essi assumono una natura temporale), si potrebbe e si dovrebbe ipotizzare un stato di cose in cui non ci sarebbe stato nulla. Dunque anche ora “non esisterebbe niente perché ciò che non esiste non comincia ad esistere per qualcosa che è”. Ragion per cui non si può non porre all’origine del contingente un ente la cui natura è meta-temporale perché necessario, possedendo in sé la ragione della sua necessità, in quanto la sua natura è di essere un ente che non può non essere, e quest’ente non può che essere Dio. Dio è la causa della necessità che si riscontra nell’ordine degli enti. Il necessario entra in relazione con il contingente, proprio in virtù della natura della nozione di contingente. Ciò che può non essere ha bisogno per iniziare ad esistere di qualcosa che a sua volti non dipenda da nient’altro che da sé: è il contingente che chiama in causa il necessario. Alla base del ragionamento di Tommaso c’è un principio ripreso poi pure da autori moderni come Cartesio: dal nulla, nulla viene. Ma questo nulla afferisce alla contingenza stessa, non è solo un’ipotesi ontologica fatta con una sorta di esperimento mentale tentando di regredire con la mente ad uno stato di cose X identificabile con il nulla. Il contingente nella misura in cui inizia e finisce, possiede una certa prossimità al nulla: il suo essere dipende sempre da altro.

 

La quarta via.
La quarta via parte dalla constatazione dell’esistenza di gradi di perfezione, presenti negli enti. Ora per perfezione Tommaso intende una certa essenza come il bene, per esempio. Ogni perfezione si presenta sempre ad un certo grado, ad un livello singolare rispetto alle altre: vi è Tizio che è buono, ma Gianni è più buono di Tizio e Marco è meno buono di Tizio. L’Aquinate fa leva su alcuni concetti presenti nel platonismo cristiano: il filosofo muove dal presupposto che gli enti creati partecipano in modo diverso a molteplici essenze. Tale partecipazione può essere maggiore o minore, ciò determina un grado minore o maggiore di perfezione. Dunque un grado maggiore o un grado minore rappresentano il modo in cui si è venuta attualizzando, nei diversi enti, una certa perfezione. Questa partecipazione da parte degli enti finiti a molteplici essenze, non è completa e mai piena. Ma che cosa è causa di tali perfezioni e della possibilità della partecipazione degli enti creati a tali essenze? Un ente perfettissimo che possiede al massimo grado tutte le essenze. Secondo Tommaso “ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere” perciò deve esistere “qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell’essere della bontà e di qualsiasi perfezione”, possedendo le  essenze nel modo massimo, ma ciò è quello che tutti riconoscono come Dio. Tommaso, per un verso, sta facendo valere il principio che aveva utilizzato nelle tre procedenti prove: la necessità di risalire, all’interno di un ordine, ad un termine non indipendente da altro. Inoltre, permane sullo sfondo quello che è poi il nerbo di tutta l’argomentazione tomistica: la differenza ontologica tra Creatore e creatura. La seconda ha l’essere in potenza, mentre il primo ha l’essere in atto, ma possedendo l’essenza in atto, l’Ente sommo possiede anche la capacità di far partecipare gli enti fniti di quell’essenza e di attualizzarle[4].

 

La quinta via.
La quinta via è forse la dimostrazione di Dio più vicina al senso comune, ed è ancora presente in modo meno articolato, rispetto alla struttura argomentativa tommasiana, in età moderna e contemporanea: l’ordine che è presente in natura rimanda alla possibilità di attribuire tale ordine ad un principio intelligente. Ma andiamo a studiare nello specifico la quinta via. L’Aquinate afferma che questa dimostrazione muove dal “governo delle cose”[5].  Ma che cosa si intende per governo delle cose? Il filosofo medievale intende con tale locuzione la realizzazione del piano provvidenziale di Dio, ma Dio — per riuscire a porre in essere questo piano — deve conoscere le sue creature e il modo in cui le organizza. Tommaso continua, dicendo: “noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenze, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione[…], ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. Ora ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto come la freccia dall’arciere”, dunque bisogna ammettere un ente intelligente che ordina tutti gli enti naturali di agire secondo un fine, che ordina tutte le cose fin dalla loro origine, ma questo essere non può non essere che Dio. L’Aquinate non considera la finalità globale che si potrebbe riscontrare nel corso degli eventi naturali; infatti, muove dalla considerazione di “alcune cose” non di tutte . Questa limitazione di Tommaso, secondo alcuni critici recenti, è ascrivibile alla necessità di Tommaso di muovere da quella porzione di realtà che appare più suscettibile ad essere relata con Dio. Gli enti naturali (come gli uomini) sono dotati di un’intelligenza che permette loro di giungere a realizzare uno scopo, perciò il filosofo muove dalla considerazione di quegli gli enti naturali (gli animali e le piante) che pervengono ad un fine a cui non possono giungere mediante la loro costituzione ontologica: conseguire uno scopo che si rivela essere un bene per l’agente che lo realizza è opera di un’intelligenza. Ma allora come è possibile che godano di tale condizione gli enti che sono privi di intelligenza? L’ente che non si spiega da sé è relato ad altro, e questo altro non può che essere Dio.

 

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Note
[1]. Cfr., A. Ghisalberti, Tommaso d’Aquino, in  Enciclopedia Filosofica Bompiani, vol. 17,  Rcs Quotidiani, Milano 2010, pp. 11658-11659.
[2]. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, cit., p. 82. Questo passaggio è di enorme rilevanza, proprio alla luce del nostro confronto tra Kant e Tommaso d’Aquino. Infatti, Kant, pur non conoscendo l’opera del filosofo domenicano, in un’opera giovanile, dove è presente, in modo parzialmente diverso, quest’idea di Tommaso — dell’impossibilità di un ente di essere causa di se stesso —. Il filosofo tedesco critica la nozione di causa sui, adoperata dal razionalismo per dimostrare l’esistenza di Dio, in quanto la causa è sempre prima dell’effetto: la relazione tra causa ed effetto si definisce in un orizzonte temporale, dove il prima non può essere anche dopo. La contemporaneità è contemplata tra cose diverse, non nel medesimo ente. Dichiara Kant: “supponendo l’esistenza di un ente che avesse in sé la ragione della sua esistenza, questo ente dovrebbe essere la causa di sé medesimo. Poiché però la nozione di causa antecede per sua natura la nozione di causato, mentre quest’ultima è posteriore, la stessa cosa sarebbe simultaneamente anteriore e posteriore a sé medesima: il che è assurdo” E. Kant, Nuova illustrazione dei princìpi della conoscenza metafisica,in Scritti precritici, tr.it. a cura di R.Assunto e R. Hohenemser, Laterza, Roma-Bari 2000, p.18.
[3]. Nell’esempio che noi abbiamo portato, si nota che il crollo di un edificio e di poco successivo allo scoppio delle dinamite, ma tuttavia tale scarto temporale è coglibile tramite i sensi, infatti sentiamo prima il boato dell’esplosivo e poi vediamo il crollo dell’edificio.
[4]. Cfr. A. Ghisalberti, Enciclopedia filosofica Bompiani, vol. 17, cit., p., il quale afferma che è proprio la contraddizione  in cui si verrebbe a situare il finito a rendere necessaria l’esistenza di Dio.
[5]. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, vol.I. cit., p. 86.


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