Anche la primavera del duemiladieci era passata in un lampo, inghiottita da un inverno implacabile e piovoso. Al suo declino, sul nascere, intorno a metà giugno, c’era voluto un anticipo di estate per rompere l’atmosfera di cupa assuefazione iniziata a ottobre dello scorso anno. Era bastato un bagno nell’acqua cristallina della riviera per tornare a sentirsi parte di quella natura sempre più trascurata negli anni, chiuso tra le pareti dell’ufficio e dello studio, in casa. I giorni e i mesi erano passati veloci scanditi da impegni spesso gravosi e non di meno fittizi, presi il più delle volte per generosità e ambizione, sopravvalutando comunque le proprie forze. Ma quella domenica mattina, con la spiaggia gremita di turisti sotto il sole scottante, appena mitigato dal libeccio, l’acqua ancora fredda lo aveva come scosso dal torpore entrando con forza nelle orecchie e nel naso, restituendo alle narici odori antichi e inediti: un mondo ritrovato e uno nuovo, di visi e di corpi per lo più sconosciuti, con le loro voci e i loro odori mescolati a quello dei pini e dei ginepri, e delle creme solari. Passato e presente s’erano congiunti come per miracolo, infanzia ed età matura liberati dagli scarti e dalle scorie offuscanti del tempo. Il mondo vero era quello? O quello catastrofico e venefico spalmato incessantemente dai media sulla gente, dal risveglio fino al socchiudersi degli occhi, la notte? Era bene lasciarsi andare totalmente, indifferenti a tutto in quel grembo primigenio, o sarebbe stato più giusto riprendere l’assetto vigile e partecipe dei peggiori destini, in questa nostra epoca? O siamo forse, di questo tempo, la buona e la cattiva coscienza, e se non pulsiamo all’eco del battito delle sue ore schizzate si procede, altrimenti, a quello ondivago dei nostri momenti più incerti e imprevedibili?
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