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Non sono le lacrime, a mancargli.E' qualcos'altro, di più fondamentale, che coinvolge anche le periferie più remote e impensate del corpo.Ed io sono arrabbiata porca troia.Arrabbiata, preoccupata, intimorita.E se lo sono io, come si sentirà lui?Come qualcuno cui è stata tesa un'imboscata?Come una persona sfortunata?Come uno a caso cui è capitato qualcosa di spiacevole?
Relativizzare.Me lo ripeto da giorni.Qualcuno me lo ripete da giorni.Anche prima di tutto questo, in una di quelle notti fondenti in cui D. ed io ci siamo lasciati camminare e parlare per un tempo indefinito, eravamo approdati ad una sorta di "teoria dell'incidenza della malattia qualunque", che in parole povere è: " Se al mondo esistono N. malattie gravi o pseudo tali, è algebricamente impossibile che, almeno una, prima o poi, non colpisca qualcuno del tuo nucleo familiare. Bisogna metterlo in conto".
Bisogna metterlo in conto.
E relativizzare.
Perché lo so che c'è di peggio, lo so che non è la fine del mondo, lo so davvero.Ma è la fine di tante cose, l'inizio di altre, non esattamente piacevoli, e a me, molto infantilmente, non lo so mica quando mi andrà giù questa cosa.
Il pensiero salvifico è che non poteva andare diversamente.Se di me si può dire che non sia mai stata capace di credere alla predestinazione, si può dire anche che non abbia mai dubitato della genetica.DNA batte destino 3 a 0.
Ora, lo dico qui, sottovoce, piccolo piccolo, e voi fate finta di non averlo letto. Una o due volte nella vita, mi è capitato di pensare che se fossi stata credente avrei avuto qualcuno da biasimare, qualcuno da pregare, qualcuno cui aggrapparmi in momenti di sconforto, qualcuno cui appioppare la responsabilità della felicità e del dolore. Non sono mai arrivata a desiderarlo, nemmeno ora.Però, mi domando cosa farò quando e se mi ritroverò a rimpiangere un Dio che non ho mai avuto.
Bisogna metterlo in conto. Anche questo.
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