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In Grazia Di Dio

Creato il 06 aprile 2014 da Davideciaccia @FailCaffe

Girato nei dintorni di Tricase, l’ultimo lavoro di Winspeare riesce magistralmente a raccontare una storia dei giorni nostri dosando dramma, comicità e realismo. Un film da cineteca.

Dico subito che Winspeare ha realizzato un film notevole come se ne vedono due o tre in un anno.

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Sulla linea di un racconto di finzione ambientato nel basso Salento, il regista racconta la storia di una società quasi scomparsa, quella rurale del sud-Italia. La sua idea è vincente, W sa bene quanto la semplicità delle cose, così evidente a tutti, è banale da descrivere; nè tantomeno l’utilizzo di arzigogoli o teorie già architettate può rendere giustizia alla terra.

L’efficacia di questo film ha origine dalla sua scelta di rinunciare ai tòpos moderni del Salento per ritornare ad un occhio realista, dentro i fatti proprio come accanto ai personaggi. poche, pochissime musiche esterne, l’intero film recitato in lingua locale, nessuna alterazione della luce naturale (le scene notturne impeccabili) sono gli elementi che lo avvicinano a quella tendenza che nel cinema internazionale sta finalmente avendo consensi anche dal grande pubblico (Nuri Bilge Ceylan, Kim Ki-duk) e che in Italia ancora fatica ad emergere.

In Grazia Di Dio parla di qualcosa di reale e presente.

C’è la crisi, quella vera sulle persone. Nel 2013, 122 aziende sono state chiuse in questa zona, un numero che fa venire i brividi e che invece non fa più notizia.  “La situazione è simile a quella della Grecia” ammette il giornalista mentre parla nella radio del bar.

C’è la totale assenza dello Stato che invece di tutelare le imprese non fa nulla nè di fronte agli interessi usurai proposti dalla banca, nè alle rate di Equitalia mandate dolosamente due mesi prima della scadenza.

C’è l’eterna necessità di dover vendere al miglior acquirente pure la casa in campagna, a qualche milionario venuto dal nord innamoratosi della bellezza dei paesaggi e dei blablabla.

Così ecco il ritorno all’arte dell’arrangiarsi, il contrabbando delle sigarette, il baratto (non come vezzo radical-chic, ma come necessità) e la campagna, patrimonio inestimabile che ancora oggi molte famiglie custodiscono.

Il merito più grande che va riconosciuto al regista è tuttavia quello di non aver calcato la mano più del dovuto rendendo la storia un pesante mattone sullo stomaco. Non sono poche le scene folkloristiche che fanno ridere a bocca aperta, complici anche gli attori evidentemente empatici con i loro modi (Antonio Carluccio e Angelico Ferrarese su tutti). E’ divertente ritrovarsi nelle numerose situazioni in cui capitano i protagonisti, anch’esse elementi caratterizzanti la società: il giro intondo con l’auto per affrontare una questione in privato, l’ingenuità di Cosimo nel dichiarare il suo amore a Salvatrice, i litigi e le riappacificazioni di una famiglia alla fine sempre unita oltre i litigi.

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Uscito dal cinema, il confronto con Mine Vaganti di Ferzan Ozpetek è stato doveroso: i due film sembrano raccontare lo stesso mondo in due modi diametralmente opposti. Le vicende di Ozpetek sono idee romantiche ambientate in un romantico Salento dove i colori caldi e le musiche coinvolgenti lasciano sognare lo spettatore. i personaggi, sono affermati economicamente e si preoccupano più dei loro problemi sociali che del resto. Insomma, un altro cinema.

Qui di romantico non c’è nulla o, per meglio dire, non c’è bisogno di romanticizzare proprio nulla.

Il rumore dell’auto e la luce dei fari quando qualcuno viene a trovarti in campagna e tu lo aspetti in piedi al cancello; il frinìo instancabile quando è sera ed hai finito di mangiare fuori sul piazzale; il torpore dopo pranzo quando al caldo dell’estate tagli i pomodori in due e li metti a seccare al sole. Davvero, non c’è bisogno di romanticizzare nulla.


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