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IN ITALIA [4]: Alchimie aziendali

Creato il 03 marzo 2012 da Tnepd

Siamo al quarto capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Il consiglio per chi non ne abbia ancora avuta occasione è quello di smettere subito di leggere, di lavorare e di spendere denaro inutilmente; per chi fosse capitato su questo testo senza aver cominciato dal primo capitolo, il consiglio è il medesimo.

Abbiamo visto nei capitoli precedenti come l’Italia, uscita stremata dalla seconda guerra mondiale, sia divenuta una repubblica democratica apparente nelle mani di tre padroni (o padrini se vogliamo): Vaticano, mafie e Stati Uniti. Abbiamo visto come i tre soci introdussero il sistema lineare destra-sinistra e come dovettero adattarlo alle idiosincrasie del panorama politico italiano. Abbiamo poi rapidamente ripercorso le vicende del sistema partitico nei sonnolenti decenni precedenti a tangentopoli.

IN ITALIA [4]: Alchimie aziendali
Per poterci approciare con cognizione di causa al resoconto delle inchieste di Mani Pulite, urge un riepilogo delle ‘premesse’. Ripercorrere la storia della Prima Repubblica dal 1946 in poi è un esercizio utile a visualizzare una nostra interpretazione del gioco delle parti, ne faremo tesoro d’ora innanzi. Nella trattazione abbiamo utilizzato sovente la geometria per rendere più comprensibile non tanto la favola della destra e della sinistra in sé quanto la percezione deformata della realtà che essa produce nella testa della gente. Per essere ancora più esaustivi utilizzeremo anche una metafora.

Dobbiamo ammettere che Prepuzio Mussoloni (da queste parti ci piace chiamarlo così) non racconta solo frottole. Ne spara tante, questo sì, e purtroppo la gente crede a quelle e non alle poche cose vere che talvolta gli scappano di bocca. Quante volte, negli ultimi diciotto anni ha ripetuto agli italiani che dovevano imparare ad interpretare lo Stato come se fosse un’impresa? Il famoso stato-azienda fu il suo cavallo di battaglia al momento della discesa in campo del 1994. Nessuno ha preso davvero in considerazione il suo consiglio. A malincuore, lo faremo noi.

Se l’Italia della Prima Repubblica è un’azienda, a mio modo di vedere è una SRL. Una Società a Responsabilità Limitata la cui proprietà è divisa fra i tre soci che abbiamo chiamato Trimurti: il Vaticano (un’enorme Ditta Individuale), le mafie (in nero e a conduzione familiare), gli Stati Uniti (la più grande Società Per Azioni del pianeta). Come in ogni società che si rispetti, ognuno di questi ha diritto alla nomina di un certo numero di delegati e dirigenti ai vari livelli aziendali, secondo le sue quote. I nominati, ovviamente, opereranno primariamente nell’interesse del loro padrone ed in second’ordine nell’interesse dell’azienda ma, a conti fatti, nessuno dei soci è interessato a che l’impresa fallisca, ciascuno mira al proprio massimo profitto ed alla sopravvivenza della struttura che lo produce. I delegati compongono l’assemblea dei soci (il parlamento), i dirigenti il consiglio d’amministrazione (il governo). Tutti operano secondo le indicazioni dei proprietari per un’ottima ragione: sono loro che foraggiano la greppia. L’assemblea ed il consiglio svolgono un doppio compito. Il consiglio è preposto a raggiungere gli obiettivi indicati dalla Trimurti attenendosi per quanto possibile allo statuto aziendale (la costituzione), l’assemblea deve gestire i rapporti con i dipendenti di fascia più bassa: impiegati, operai, mano d’opera in genere. Questi ultimi, ossia il popolo, sono preponderanti a livello numerico sulla categoria dei dirigenti ed il sistema è congegnato proprio per tenerli lontano dalla stanza dei bottoni facendo loro credere di starci seduti dentro.

IN ITALIA [4]: Alchimie aziendali
Non era sempre stato così. Secoli e secoli orsono, i primi padroni avevano vita più facile di quelli odierni. In origine, una qualsiasi azienda-stato era così: i proprietari (sovente uno solo, o meglio, una famiglia) decidevano, i dirigenti organizzavano, gli operai – in questo frangente chiamiamoli genericamente così – eseguivano. Anno dopo anno, rivoluzione dopo rivoluzione, gli operai ottennero il diritto di poter eleggere i propri rappresentanti in un’assemblea che intendeva essere un tavolo di discussione tra operai e proprietari. In seguito gli operai vollero ed ottennero sempre più rappresentanti fino a che non pretesero di trasformare l’azienda in una cooperativa. I proprietari (monarchi, re, papi) erano molto ricchi, ma gli operai (il popolo) erano tanti. A quel punto taluni proprietari accondiscesero a generose mediazioni, altri non vollero sentir ragione e li affrontarono a muso duro. Vi abbiamo accennato nel primo capitolo. A conti fatti, nella sostanza, nessuno Stato vecchio e nuovo sarebbe mai divenuto una cooperativa.

Torniamo a noi. Dopo mille peripezie ed all’insaputa di tutti, nel 1943 l’azienda-Italia fu rilevata sottobanco, sull’orlo del fallimento, da quella che oggi chiameremmo ‘una cordata di investitori’ (noi li abbiamo definiti armatori di un vascello scampato al naufragio). Vecchi titolari (Avanti Savoia!) e dirigenti (il regime fascista) furono estromessi. A quel punto tutte le opzioni erano possibili. I tre nuovi proprietari dell’impresa, la Trimurti, optarono per la SRL come forma societaria ma si videro costretti dalla congiuntura storica a registrarla, nel 1946, come cooperativa alla camera di commercio (l’ONU di freschissima costituzione). Per questa ragione, abbiamo detto fin dalle prime battute, la Repubblica Italiana fondata sul lavoro nacque affetta da una contraddizione: era una SRL ma gli operai la credevano una cooperativa.

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La Trimurti chiese ai suoi dirigenti di svolgere un doppio ruolo: amministrare per i proprietari e recitare per gli operai. Per quasi cinquant’anni i dirigenti assolsero egregiamente alla loro funzione sotto l’attenta regia di uomini come De Gasperi, Fanfani e – primus inter pares – Giulio Andreotti, distinguendosi soprattutto nel secondo obiettivo, recitare con gli operai. Sulla base di un format bipolare di grande successo internazionale ma inadatto al pubblico multipolare italiano, seppero infatti accattivarsi il sostegno del settore ‘impiegatizio’ dell’azienda relegando il sindacato operaio (il Partito Comunista) al ruolo di antagonista e presunto nemico designato del sistema. Seppero alimentare e gestire le lotte intestine tra le fila dei dipendenti. In altre parole convinsero gli impiegati a prendersela con gli operai e viceversaDivide et impera. Nel frattempo, per salvare le apparenze e per comprendere quale dei tre soci avesse più appeal sui dipendenti, che dovevano lavorare e spendere per arricchire proprietari ed azienda, indissero dieci consultazioni elettorali, le dieci legislature della Prima Repubblica.

Come la vedevano gli operai e gli impiegati? D’ora innanzi, quando vorremo parlare indistintamente di tutti coloro che non sono né dirigenti né proprietari, riuniremo tutte le sotto-categorie in una sola macro-categoria che chiameremo pueblo, termine che ci pare assonante alla condizione di totale subalternità della volontà che le accomuna. Insomma, come la vedeva il pueblo?

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Il pueblo andava a lavorare, a spendere e a votare certo che l’impresa fosse una cooperativa e dunque convinto di scegliere la composizione della dirigenza (quella che con un termine tipicamente italiano usiamo definire classe politica) ed in questo modo il suo avvenire. Si lasciò cioè convincere di due premesse del tutto false: 1. che la dirigenza fosse il potere più alto dell’azienda; 2. che la dirigenza lavorasse per il pueblo.

La situazione reale, vista da fuori, era paradossale. Operai ed impiegati dovevano lavorare per arricchire l’azienda (perché ciò fosse chiaro, i fondatori si affrettarono a specificarlo nell’articolo 1 dello statuto) ma al contempo dovevano finanziarla con una parte dei loro salari (far loro credere che fosse una cooperativa dava grandi benefici ai proprietari). Ad aggravarne l’esistenza, operai ed impiegati soffrivano di una costante condizione psicologica di insoddisfazione senza averne coscienza. Provocata dall’incolmabile discrepanza tra le aspettative immaginabili ed i risultati ottenibili, questa insoddisfazione permanente li motivava al lavoro per scopi del tutto egoistici e li demotivava all’aggregazione ed al dialogo. Ciascuno avrebbe voluto essere qualcosa d’altro, ottenere una mansione meno faticosa, avere un ufficio più spazioso, passare al piano superiore. A quelle menti semplici tenute in uno stato di patologica insoddisfazione, la scarsezza delle risorse pareva la condizione naturale dell’esistenza ed il prossimo un pericoloso concorrente nella corsa ad accaparrarsi la briciola più grossa. Ciascuno finì per vedere in ogni altro un concorrente ed infine un nemico.

L’ ‘homo homini lupus’ hobbesiano si rivelò quindi la giusta interpretazione dell’umanità? Forse, oppure a qualcuno molto potente e cinico fece comodo farlo credere agli altri. Ed i più ancora ci credono.


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