Il nuovo film di Andrea Segre e Vinicio Capossela, ieri al cinema per un giorno, unico spettacolo in molte sale italiane. La crisi greca, taverne e rebetiko.
Indebito. Non dovuto, immeritato, ingiusto.
Il film di Andrea Segre e Vinicio Capossela si apre su rovine: una fabbrica abbandonata, ormai arrugginita, e un piccolo villaggio distrutto; due poltrone sembrano aspettare, ancora vive, di fronte al mare.
È dal mare che è arrivato il rebetiko, blues ellenico, dopo la katastrofis (la catastrofe), la guerra greco-turca del ‘22, chiusa con il trattato di Losanna, la distruzione di Smirne e un milione e mezzo di profughi, Greci di Asia minore, costretti a ritornare in patria. Una musica di dolore, di distacco, di scissione, di crisi.
Serrande abbassate, cartelli di affittasi. La crisi in Grecia è raccontata tramite un viaggio nelle taverne di Atene e Salonicco, dove di notte rebetes, musicisti di rebetiko, suonano “musica che è sopravvissuta 80-100 anni, non 6 mesi come quelle di oggi”, perché “aiuta a non far sentire solo chi ascolta e si immedesima” nelle storie custodite. Suonano giovani e più anziani, uomini e donne, per loro e per gli altri, svelando anche origini, forza, abitudini e miti di canzoni di cui oggi forte si avverte il bisogno; una scritta su un muro per strada recita: “sto soffrendo”. Crisi umana, identitaria, prima che economica e politica.
“La gente imita i vecchi rebetes per alcool e altre sostanze, ma il mangas? La sincerità?” si chiede uno dei musicisti. Già, l’uomo sincero? Questo indagano Segre e soprattuto il personaggio Capossela, che si perde talvolta nelle vie della città, chiedendosi perché non riesca a cantare anche lui quei versi, con la stessa verità. È in lui che ci immedesimiamo, nella sua ricerca del mangas, tra baglamas, bouzouki e il “tunza tunza della gioventù imbirrata”¹.
Ci si stropiccia gli occhi alle prime luci dell’alba, uscendo dalle tenebre dove si è trovata pace. Ma poi si ritorna, immersi di nuovo in un’atmosfera densa di forza, fumo e apprensione.
A ridare aria all’ambiente saturo, quasi in conclusione, con ironica goffaggine, un ventilatore in un giardino pubblico. “Ma io sono ottimista”, dice una rebetes, dopo aver letto fondi di caffè turco.
Indebito. Non dovuto, immeritato, ingiusto. Destino?
«Povertà, anche se possiedi delle vittime,
nascondi anime con emozioni».
Vasilis Tsitsanis
Tis ftohias ta kourelia (Gli stracci della povertà), 1952
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