Riassumo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano online “LINKIESTA”, che ha analizzato tutti i principali comparti manifatturieri italiani. Quella descritta è la fotografia dell’industria alimentare italiana, un piccolo gioiello da preservare e che ancora resiste, al contrario di altri settori della manifattura ormai considerati morti. Quello alimentare è il secondo comparto manifatturiero del Paese, con 127 miliardi di fatturato e circa 390 mila addetti (10% della manifattura), l’industria alimentare costituisce, assieme alla moda, l’emblema dell’italian way of living. Secondo l’indice delle eccellenze competitive dell’Italia stilato dalla Fondazione Edison, il nostro Paese detiene la prima posizione nell’export mondiale di pasta (1,8 miliardi di dollari), la seconda nell’export di vini (3,9 miliardi di dollari), la terza nell’export di cioccolata e di altre preparazioni alimentari contenenti cacao (890 milioni di dollari).
Le 55 mila imprese attive nel settore, organizzate prevalentemente per distretti (sono ben 41 quelli censiti dal Monitor dei Distretti di Intesa San Paolo), sono nella grandissima parte dei casi di piccole dimensioni. Cosicché le aziende alimentari più strutturate rappresentano un numero davvero esiguo (ne sono alcuni esempi Nestlè, Barilla, Unilever, Ferrero, Illy, Orogel, Rana, Parmalat, Perfetti, Conserve Italia) e il valore medio di addetti per impresa è di poco superiore a 7, inferiore ai 9,5 addetti medi delle imprese manifatturiere. Nonostante i processi di concentrazione avvenuti tra la metà degli anni ‘80 ed i primi anni ‘90, l’industria alimentare italiana continua così ad essere connotata da grande frammentarietà; una condizione, questa, che inevitabilmente condiziona in senso negativo la propensione all’export, l’impronta manageriale delle imprese e soprattutto i rapporti di forza con le potenti centrali di acquisto della grande distribuzione organizzata.
Ciò nonostante, dal punto di vista dinamico il settore, anche negli anni di maggiore intensità della crisi (2008-2009), ha continuato a manifestare una generale stabilità del sentiero di crescita, evidenziando una notevole capacità di tenuta. Se ne trae conferma anche dal fatto che la produzione alimentare del Paese nel decennio 2000-2010 ha messo a segno un +12,1%, con oltre 27 punti di differenza rispetto al -15,4% segnato in parallelo dall’industria manifatturiera nel suo complesso.
L’erosione dei volumi sul mercato interno, come detto, è stata in parte recuperata dall’andamento dell’export: ormai quasi un prodotto alimentare su 5 viene esportato. Emblematico in tal senso il caso del Grana Padano, il prodotto Dop più consumato del mondo, per il quale il 2011 si è concluso addirittura meglio del 2010 (4,6 milioni di forme prodotte), con un ulteriore incremento delle esportazioni di oltre il 5%: in Germania, maggior importatore di Grana Padano, il volume di ricavi è cresciuto dell’8,2%, in Russia addirittura del 31,5% e in Canada del 22 per cento. Che l’export, in particolare verso Paesi emergenti come Russia, Cina, India e latino americani, sarà sempre più il driver decisivo per cavalcare saldamente il mercato, è ormai un dato acquisito tra gli operatori del settore. Esportare è diventata peraltro per le imprese del comparto una strada obbligata, con cui fronteggiare la perdurante stagnazione del mercato interno; Nell’area dell’Europa centro-orientale giocano un ruolo importante il mercato russo, polacco e della Repubblica Ceca. La buona dinamica sui mercati maturi e l’avanzamento sui mercati emergenti hanno consentito ai distretti che operano nella filiera agro-alimentare un recupero totale dei livelli di export pre-crisi. Il confronto risulta sfavorevole per molti dei distretti operanti nel comparto agricolo (ortofrutta romagnola e del foggiano, le mele del Trentino, l’olivicoltura barese e il distretto florovivaistico di Lucca e Pistoia), per due distretti della pasta (il distretto della pasta napoletana e quelli di Fara san Martino) e per il polo delle Conserve di Nocera, per il quale ancora non si arresta il trend negativo avviato nel 2010, determinato in larga parte dalla dinamica sfavorevole dei prezzi. Le strategie innovative dell’industria alimentare si distinguono da quelle del resto delle imprese manifatturiere per il ruolo determinante svolto dagli investimenti in beni strumentali, nel design e nel packaging dei prodotti. In effetti il settore alimentare si segnala anzitutto per una maggiore vocazione alla sola innovazione di processo: il 36,1% delle imprese innovatrici, pur non dedicandosi allo sviluppo di nuovi prodotti, ha scelto di adottare sistemi di produzione tecnologicamente più avanzati, macchinari ad elevato contenuto innovativo, tecnologie che garantiscono una maggiore produttività e migliori prestazioni in termini di rapidità, precisione e flessibilità (la percentuale è del 25,7% nell’intero comparto manifatturiero). Inoltre, le imprese alimentari presentano, come si è detto, una maggiore propensione agli investimenti nel design e nel packaging dei prodotti.
Magazine Salute e Benessere
Industria alimentare: un gioiello italiano
Creato il 08 gennaio 2012 da Scienziatodelcibo @scienziatodelciPossono interessarti anche questi articoli :
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