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Sbagliano coloro che tentano di metterla sul piano della rissa, come se fossimo al “bamboccioni” di Tommaso Padoa-Schioppa: “quelli che non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”, gentaglia che il ministro dell’Economia del secondo governo Prodi suggeriva di mandare “fuori di casa”. Non si tratta neanche dei giovani “choosy” (schizzinosi), incapaci di accontentarsi di un posto di lavoro qualsiasi, secondo l’accusa di Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti in gara con il vice Michel Martone (quello dei fuoricorso “sfigati”) nella particolare competizione tra coloro che dai salotti di esclusivissimi circoli guardano i comuni mortali con schifato senso di superiorità. La “monotonia” del posto fisso (Mario Monti); i ragazzi da fare uscire di casa a diciotto anni, “per legge” (Renato Brunetta); i lavoratori precari “Italia peggiore” (ancora l’attuale capogruppo Pdl alla camera dei deputati). In questi casi sì che c’era l’offesa, perché chi ha pronunciato quelle frasi fa parte di un sistema fondato sulla disparità delle opportunità. Non a caso, si trattava di fustigatori da cattedra universitaria. Non bisogna essere dei segugi per fiutare l’odore di casta: basta scorrere gli elenchi di associati, ordinari, ricercatori, ma anche amministrativi delle università italiane per scoprire (si fa per dire) la frequenza di certi cognomi. Alla Sapienza di Roma, tanto per ripetere una celebre battuta, c’è un vero e proprio “convento di Frati”: e non sono monaci. D’altronde, qualche “figlio di” ha dato anche una interpretazione genetica: “i figli dei professori universitari vincono i concorsi perché sono più portati a quel tipo di lavoro”. Così come, completerei il concetto, i figli dei generali sono più portati ad avere una carriera nell’esercito e i figli dei medici o dei notai seguono quasi naturalmente le orme dei genitori. Sono più portati. Facciamocene una ragione.
Ecco, queste avventate dichiarazioni al tempo sollevarono, a ragione, un vespaio di polemiche per l’arroganza che trasudavano. Ma sul rapporto dell’Ocse c’è poco da argomentare. La verità non è mai offensiva. E la verità è che, in Italia, istruzione, università e formazione non facilitano per niente l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Perché istruzione e lavoro, da noi, sono due mondi che non si parlano. Scuola e università sono per lo più parcheggi che alla fine rilasciano un inutile pezzo di carta. Non spendibile, perché il mercato del lavoro non sa che farsene (tanto per dirne una) di un esercito di laureati in discipline umanistiche. L’Italia è ormai un paese di laureati, addottorati, pluripossessori di attestati di corsi di formazione professionale. E di disoccupati incazzati.
Il sistema è bloccato e chiuso dall’interno, dove pochi privilegiati cercano di resistere all’assalto congiunto del padronato e delle orde di disoccupati o lavoratori senza alcuna tutela che premono dall’esterno. Per entrarvi bisogna conoscere chi detiene la chiave. Avere un gancio all’interno, fare la fila dietro la porta del politico giusto, scendere a compromessi con la criminalità organizzata. Di certo, la chiave, non ce l’hanno i centri per l’impiego: gli ultimi dati disponibili (relativi al 2011) assegnano infatti ai Cpi la miseria del 3,9% delle intermediazioni tra domande e offerte di lavoro. Né regge la mezza balla del “bisogna osare”: trovate una banca disposta a sostenere l’iniziativa di chi non ha garanzie da offrire in cambio di un mutuo o di un prestito, e poi ne riparliamo.
La disputa sugli “inoccupabili” è fuorviante, sposta l’attenzione dai fatti alle parole. Parole come un disco rotto. Quando condannano, quando giustificano, quando interpretano, quando addirittura esaltano. Soprattutto al Sud. Soprattutto da noi. Gli spot sul paradiso calabrese lasciamoli agli uffici stampa. Un paradiso talmente accattivante da provocare un esodo biblico, un’emorragia di freschezza e competenze ogni giorno più drammatica. Riscattata appena dalla lotta quotidiana di chi si ostina a cercare un motivo qualsiasi per non scappare. Una battaglia sempre più dura, sempre più amara. Fino a quando la misura non sarà colma. Fino a quando non si alzeranno le vele.
Allora saranno lacrime di dispetto. Asciutte. E orecchie tappate per respingere il canto delle sirene: “non partire, resta qua”. Sarà strapparsi il cuore e interrarlo in qualche sperduto rittano dell’Aspromonte.
Questo sarà.
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