Di Sara Gabrielli Pettinicchio si diceva non solo che non avesse mai lavorato in vita sua, ma anche che non avesse neppure preso in mano una scopa o un aspirapolvere. Falsità ovviamente, messe in giro dalle solite malelingue che traggono piacere nello spargere cattiveria e acredine a piene mani. Infatti, per quanto fosse vero che lei non aveva mai preso in mano una scopa o un aspirapolvere – perché avrebbe dovuto farlo d’altra parte? – affermare che non avesse mai lavorato non corrispondeva a verità, visto che non solo un pomeriggio estivo aveva aiutato un’amica in un bar, ma nel suo periodo “ribellistico”, intorno ai 19 anni, desiderosa di rendersi indipendente dalla famiglia aveva seguito per due giorni un corso di venditrice di cosmetici porta a porta, salvo poi rendersi conto che l’ipotesi di sposare un uomo benestante era di gran lunga preferibile a quella di trascinarsi dietro per tutto il giorno una borsa piena di cremine.
E così aveva fatto, ma senza forzare la situazione, senza nessun freddo calcolo, semplicemente lasciandosi andare alla vita e scegliendo fra quello che la vita le offriva.
Il marito, il Gabrielli, era una brava persona e avendo perso il padre da giovane, da giovane aveva preso in mano l’azienda di famiglia che produceva macchine per la lavorazione della carne. Il suo sogno era quello di automatizzare e rendere il più possibile asettici tutti i passaggi che si frapponevano fra l’animale vivo e il salame sulla tavola, fra la mucca che bruca l’erba e la fettina che si cuoce in padella. Secondo il Gabrielli, la sola idea che l’animale venisse fatto a pezzi era capace di uccidere tutta la poesia della pancetta. Per questo era da sempre impegnato nel tentativo di progettare un macchinario che fosse in grado di dare vita a questa sorta di magia, azzerando al contempo lo scarto produttivo. La sua era una vera e propria ricerca filosofale volta a realizzare una macchina disneyana nella quale da una parte entrassero gli animali, dall’altra uscissero bistecche e salumi, pennelli e pettini, pelli conciate e impugnature in osso. Il tutto senza vedere una goccia di sangue, senza lasciare un filo d’unto, senza che neanche una minuscola parte di animale restasse inutilizzata.
Sara “non ancora Gabrielli” Pettinicchio aveva visitato la fabbrica una sola volta, durante il pur breve periodo di fidanzamento. E le era bastato. Nonostante non fosse vegetariana, o per meglio dire non avesse mai preso in considerazione un’ipotesi che le pareva tutt’al più bizzarra, la vista del reparto in cui disossatrici, spremivena e altre macchine affini venivano testate e messe sotto sforzo, le aveva provocato un mancamento che lei aveva diplomaticamente attribuito ai primi caldi. E incalzata dal futuro marito a esprimere un parere sulla visita, se ne era uscita con un «Molto interessante», giurando tuttavia a se stessa di non rimettere più piede in quel posto. E così era stato.
Il corso di poesia era stato fortemente voluto dalla locale parrocchia nella persona di Elisa Magagnoli, un’attivista talmente attiva che se non aveva per le mani tre o quattro cose in contemporanea si sentiva smarrita. Per quanto fosse a conoscenza del fatto che Sara Gabrielli Pettinicchio non era esattamente una cattolica molto praticante, sapeva anche che si trattava dell’unica persona a cui poter chiedere una cosa del genere e così la prima volta che l’aveva incrociata le aveva detto: «Non le piacerebbe tenere un corso di poesia per i nostri parrocchiani?». La poetessa, inizialmente, si era schermita affermando di non sentirsi all’altezza quindi, di fronte al reiterato invito, aveva accettato. Il corso, intitolato “Versi e capoversi”, sottotitolo “Poesia al femminile”, si sarebbe articolato in tre incontri nel corso dei quali la poetessa del basso lodigiano avrebbe spiegato gioie e rudimenti dell’ars poetica.
Al primo incontro Sara Gabrielli Pettinicchio arrivò con un calcolato ritardo di sei minuti, un risultato ottenuto soltanto girando alcune volte a vuoto intorno alla chiesa. Non sapendo se qualcuno avrebbe partecipato o meno – aveva proposto di raccogliere le adesioni, ma la Magagnoli aveva nicchiato perché secondo lei la richiesta di un impegno formale avrebbe scoraggiato la partecipazione – l’idea di dover attendere fuori, da sola, le era sembrata insostenibile.
Dopo aver parcheggiato l’auto nel piazzale, si diresse verso l’entrata trovandovi tre persone.
«Siete qui per il corso?» domandò.
«Sì» rispose la più giovane delle tre, una ragazza bassina e dai capelli unticci che dimostrava una ventina d’anni.
«Bene, allora entriamo.»
«Anche lei è qui per il corso?» chiese l’altra donna, una signora piuttosto anziana che portava un cappotto pesante e delle scarpe marroni da chiesa, lievemente squadrate e senza fronzoli.
«Sono Sara Gabrielli Pettinicchio.»
«Piacere, io sono Mara Gabbioni, anche lei per il corso?»
«Mara, possiamo darci del tu? Io sono l’insegnante.»
«Oh, mi scusi tanto, non lo sapevo» disse la donna come se avesse appena scambiato il Papa per un gelataio della riviera romagnola, «Non sapevo» continuò rivolgendo lo sguardo agli altri due, in cerca di comprensione.
Approfittando dell’attimo di imbarazzo il terzo incomodo, un ragazzo grassoccio che portava una camicia bianca stropicciata, si infilò in quell’abbozzo di conversazione: «Sono Marco», disse allungando la mano verso la poetessa.
La Gabrielli Pettinicchiogli strinse la mano nel suo modo usuale, che non era davvero una stretta ma una sorta di elegante curvatura del palmo che dal di fuori poteva sembrare il tentativo di soppesare qualcosa di inconsistente e gelatinoso come una medusa o un budino.
«Anche tu sei qui per il corso di Poesia al femminile?» chiese calcando particolarmente la voce sul termine “femminile”, per fugare ogni eventuale dubbio.
«Sì sì» rispose il ragazzo senza apparente imbarazzo.
«Bene, allora direi che possiamo iniziare ad entrare.»
La sala non era né più né meno di quello che ci si aspetterebbe da una sala del genere: il colore delle pareti era di una tinta pastello resa solo un po’ più viva dall’annerimento tipico del tempo; il tavolo e le sedie erano scomode al punto giusto tanto per non dimenticare neanche per un attimo chi siamo e dove andiamo; sulla parete di fondo trovava posto un calendario di qualche anno prima sponsorizzato da un fiorista del posto, mentre su un lato erano appesi tre piccoli quadri a tema natural paesaggistico per i quali – dato anche lo scorrere del tempo e il confondersi dei colori, sia fra di loro sia rispetto alla cornice – persino il termine “croste” sarebbe suonato come un complimento.
Sara Gabrielli Pettinicchio prese posto sulla sedia dopo averla spostata con due dita, pollice e indice, provocando uno sgradevole rumore.
Sopra al rumore si innestarono dei passi veloci, un ticchettio frenetico di tacchi. «È qui il corso?» domandò una donna dai capelli visibilmente carichi di elettricità statica. «Scusate ma ho dovuto lasciare i bambini a mia suocera che in questo periodo non si sente neanche tanto bene perché è stata operata l’anno scorso e ancora non si è ripresa del tutto e poi la macchina ha cominciato a fare degli strani rumori e mi sono dovuta fermare a un benzinaio per farla vedere ma è tutto a posto. È qui il corso?».
«Sì, il corso è qui. Allora, prendiamo posto e facciamo le presentazioni. Ci diamo del tu vero? Quindi tu saresti?»
«Io sono Silvana Agosti, faccio l’insegnante alle scuole elementari, gli amici mi chiamano Silva…»
«Basta il nome.»
«Solo il nome è Silvana. Silvana Agosti. Detta Silva.»
«Benissimo, io sono Sara Gabrielli Pettinicchio, poi abbiamo… Mara giusto?»
La signora anziana si limitò a scuotere il capo onde evitare qualsiasi, ulteriore, inconveniente.
«Poi c’è Marco. Poi…»
«Io mi chiamo Erminia.»
«Erminia. Che bel nome, un nome fuori dal tempo. I nomi sono importanti. Anche le parole sono importanti. Quanto sono importanti le parole?» disse con solennità Sara Gabrielli Pettinicchio, che una entrée del genere non stava certo improvvisandola, anzi, doveva averla provata a lungo.
I quattro aspiranti poeti rimasero tutti col naso all’insù, metaforicamente parlando, in attesa di una risposta che però non sembrava arrivare, trattandosi ovviamente di una domanda retorica la cui retorica, tuttavia, gli aspiranti poeti non riuscivano ad afferrare rimanendo quindi in attesa di una risposta che non poteva in nessun caso arrivare.
E così mentre la poetessa era bloccata in una sorta di fermo immagine digitale per timore che qualsiasi movimento muscolare, anche involontario, potesse rovinare l’importanza del momento, e gli aspiranti poeti erano a loro volta impietriti dibattendosi nel dubbio se dovessero o meno azzardare una risposta e, nel dubbio, quale, Silvana Agosti detta Silva riprese a masticare vistosamente la gomma: «Sara, diccelo tu quanto sono importanti le parole».
«Molto no?» disse la Gabrielli Pettinicchio indispettita, mentre si riabituava ai movimenti quasi stesse uscendo da un bullet time, «Quanto sono importanti le parole nella poesia? Molto».
«Lo pensavo eh» disse Silvana Agosti, «ma era meglio se lo dicevi tu».
La prima lezione di “Versi e capoversi” durò circa un’ora e a dispetto dell’indispettito inizio, tutto filò liscio in un riuscito mix fra le egocentriche teatralizzazioni dell’insegnante e la disinvolta noia generale. Persino Silvana Agosti, dopo aver contrappuntato nei primi minuti alcune affermazioni della Gabrielli Pettinicchio, perse in breve ogni interesse dedicandosi nel restante tempo a passare in rassegna lo stato delle sue unghie, prima, e a vergare distrattamente disegnini di fiori sul foglio che aveva davanti poi.
Per non dire dei dieci minuti buoni in cui la poetessa del basso lodigiano volle sottolineare l’importanza della potatura delle rose, o di altra simile attività contemplativa, rispetto alla composizione delle poesie, affermando che tali azioni non solo influenzavano positivamente l’esercizio della Poesia ma erano un vero e proprio nutrimento dell’anima. L’annoiamento a quel punto aveva raggiunto una tale concentrazione chimico fisica, una densità quasi paragonabile alla nebbia, che potendo, persino i muri sarebbero usciti dalla stanza.
Alla fine, l’insegnante chiese se c’erano domande e si trovò di fronte la mano alzata di Erminia, «Posso chiedere una stupidaggine?» disse la ragazza.
«Certo, chiedi pure.»
«Ecco, volevo sapere: ma tutte le poetesse hanno il doppio cognome?»
«Diciamo di sì. Non è che puoi fare la poetessa con un solo cognome; nessuno, giustamente, ti prende sul serio. Voglio dire, quello che conta in fondo sono le poesie, ci mancherebbe, ma se ti presenti male, di certi giudizi non riesci più a liberarti. Se vuoi vincere un concorso e ti iscrivi con un solo cognome, magari pure ordinario, l’unica cosa che posso dirti è Tanti auguri. Alla fine ricordate sempre le tre regole auree: Verso, potare le rose, capoverso.»
E con questo l’insegnante si congedò dalla classe, «Ci vediamo la prossima settimana» disse affrettando l’uscita.
Gli aspiranti poeti rimasero qualche secondo fermi, come indecisi sul da farsi, poi iniziarono a raccogliere gli effetti personali lanciandosi sguardi interrogativi, senza che tuttavia nessuno riuscisse a concretizzare tanta umoralità che nel giro di pochi secondi andò condensandosi come umidità che incontrando una parete fredda si raccolga naturalmente in sottili strisce d’acqua. «Mi sa che la settimana prossima provo ceramica» disse alla fine Silvana Agosti.
Alberto Forni è nato a Bologna di venerdì 17 ma non è scaramantico. Ha pubblicato la raccolta di racconti Avanti Veloce-Cronache da un mondo pop (Fernandel, Baldini&Castoldi). È stato uno degli autori della trasmissione radiofonica Dispenser di Radio 2 e di quella televisiva Viva la crisi di Rai 3. Scrive o ha scritto su varie riviste fra cui Wired, Flair, Panorama e Linus. È autore del blog Fascetta Nera, dedicato alle fascette dei libri. Del coniglio non si butta niente è tratto dal romanzo "in progress" Seguirà buffet.
A cura di Sara Gamberini e Giovanni Ragonesi
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