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La prima percezione, quella più epidermica, suggerisce Przesluchanie come un film di denuncia che a prescindere dalla collocazione storica vuole esporre con rabbia e dolore la moribonda condizione in cui versava la Polonia del regista Ryszard Bugajski al tempo in cui il film è stato girato. Infatti, nonostante il 1982 sia l’anno ufficiale di produzione, la pellicola ha trovato distribuzione soltanto nel 1989, ovvero dallo sgretolamento della morsa comunista in avanti. Nel lustro e più di limbo il regime vietò la circolazione dell’opera, e ciò costrinse Bugajski ad un canale clandestino per diffondere la propria opera tramite VHS. Si diceva di rabbia e dolore. Stati d’animo palpabili che travalicano lo strato di celluloide e si presentano con decisione: il divario è totale, ci sono uomini che comandano e altri che subiscono. Divisione, questa, che è il piano su cui si fondano tutti i dispotismi, e l’autore fotografa un processo macrosociale come può essere l’autoritarismo che schiaccia il popolo attraverso una riduzione in scala, claustrofobica, tutta “reclusa” all’interno di un carcere nel quale, ovviamente, i detenuti vengono sottomessi dai carcerieri. Il regista acuisce il quadro tirannico con un metodo à la Kafka, prende un’innocente come Tonia e la cala in una fetida pozzanghera in cui gli aguzzini vogliono costringerla a dire false verità. Chiaramente i metodi utilizzati sono via via sempre meno umani, e il viso della protagonista sempre più scavato diventa termometro per misurare il grado di crudeltà che è costretta a sopportare.
Constatato dunque un discorso ben più ampio della vicenda in sé, alla questione politica si appaia quella della Persona, di un martirio ineccepibile che spoglia, come in effetti verrà fatto più volte, la donna Tonia di tutte le qualità che fino a quel momento hanno tenuto in alto la sua vita: non è più riconosciuta come una cantante famosa, il marito finisce per non credere alle sue parole, viene tradita dall’unica amica dentro la prigione; il risultato, unico ed inevitabile, è l’alienazione verso il mondo che la porta alle soglie del suicidio. Ma il dolore e la rabbia non si fermano dinanzi a niente, e Bugajski, forse qui esagerando un filo perché il rapporto con l’aguzzino appare immotivato, aggiunge al dramma una maternità senza speranza che rabbuia un tutto appena appena edulcorato dal finale.
Il film ha qualche difettuccio che lo rende perfettibile, soprattutto lo scarso dinamismo narrativo che per circa un’ora congela il racconto all’interno di sequenze cella-interrogatorio che trasmettono staticità, una volta poi aperta la botola del baratro la discesa di Tonia non ha particolari guizzi d’originalità, ma, e qui sta il vero pregio, tale caduta colpisce la sensibilità spettatoriale con momenti tosti (le angherie che subisce: la doccia ed il piscio), e momenti dove si preme efficacemente il pedale della tensione (l’ottima in scena con cui si tenta di estorcere una confessione a Tonia tramite il finto omicidio), la conseguenza tangibile è che la Tonia di fine film sembra invecchiata 40 anni rispetto a quella dell’inizio. Merito di Krystyna Janda che sfodera una prestazione nervosa e stordita allo stesso tempo, e merito di Bugajski che seguendo il principio della messa in scena (dal grande al piccolo) si avvicina sempre più al volto della sua attrice fino a cogliere l’azzurro dei suoi occhi, occhi in cui l’acqua celeste che fino a quel momento le aveva riempito le iridi sembra evaporata via.
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