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Ancora una volta, dunque, dobbiamo prendere atto di una prolificità fuori dal comune che a dispetto di comprensibili quanto umani cali di rendimento, plasma un cinema travolgente livellato verso l’alto che ad ogni sua manifestazione contiene sempre delle peculiarità che ne impreziosiscono l’essenza.[1]
La qualità principale di Yume no naka è quella della sperimentazione. Potremmo dire che ci troviamo davanti al Sono più sperimentale tra tutti gli altri visti fino ad oggi.
Anche se l’allestimento generale è una strada che comunque è stata battuta più volte all’interno della settima arte, si parla di piani dimensionali contrapposti in equilibrio tra onirismo e realtà, il giapponese lo fa con molto del suo talento, partendo da un canale visivo tutto (video)camera a mano che sfocia nel pedinamento nevrotico e rapsodico degli attori sulla scena.
L’esplorazione di nuovi territori avviene però attraverso le argomentazioni di sempre qui implementate dal sogno-specchio deformante che duplica (e forse non solo) le identità. Se il protagonista è contemporaneamente attore di fiction televisive e membro di una gang criminale che vuole far saltare in aria la rete nazionale dei cellulari giapponesi, anche tutte le persone che ruotano intorno alla sua vita sono uno e due[2], ma tale abbondanza di personalità marchia a fuoco l’opposta assenza, quel procedimento di disidentificazione che annulla il proprio Io sparpagliando i pezzi di un puzzle senza proprietà di soluzione, e il finale con il ragazzo che urlacchia inciampando sulla strada buia sembra proprio la sintesi di un uomo che non riconoscendosi più è impazzito.
Al contempo però questa forma peculiare piena di interstizi, vie di fuga e vicoli ciechi, fa un po’ di fatica a trovare una collocazione “giusta” a tutto il magma eruttato. Dati i confini narrativi mai così labili, il travaso da un piano del racconto all’altro è a tratti (e non poteva essere che così) un’inondazione che investe e mette gambe all’aria. Che cosa succeda in alcuni punti (la sottostoria della malattia venerea), e chi siano taluni personaggi (il tipo lynchiano che aggiusta i tubi), sono passaggi celati da un velo non proprio penetrabile.
È cinema che per forza di cose si subisce, e aldilà di qualche tentennamento, noi allibiti spettatori occidentali non possiamo far altro che incassare il colpo, ma sempre con un certo piacere.
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[1] Anche il bruttino Chanto tsutaeru (2009) ha nella sua scena madre un momento di cinema da ricordare.
[2] Nuovamente nella carrellata di personaggi folli ed eccessivi spicca il padre (architrave nella poetica sononiana) che è addirittura diviso in tre.
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