Fuori c’e’ il sole e io sono in ferie.
Fuori c’e’ il sole, io sono in ferie e vorrei essere in qualunque altro posto tranne che in ferie, a Manchester, chiusa dentro casa.
Cosi’ esco dal pigiama, entro nei primi jeans e felpa che trovo, ficco i capelli spettinati dentro un cappello, mi strozzo con una sciarpa e schizzo fuori. Talmente di fretta che tra un po’ neanche passo dalle ciabatte alle scarpe da tennis. Conciata in questo modo non mi riconoscerebbe neppure mia madre, anzi, se vogliamo dirla tutta lo specchio dell’ascensore s’e’ sbriciolato strillando “pieta’!“, ma vabbe’. Non sto mica andando ai Bafta. Sto andando in chiesa.
Non sara’ l’ambiente piu’ rilassante di Manchester, anzi, quel gotico e tutte quelle statue e quei ceri ne fanno il set perfetto per l’ennesimo film dell’orrore (come ogni chiesa cattolica, diciamolo), ma pazienza. Almeno c’e’ caldo.
La chiesa e’ vuota. E quando dico vuota, intendo proprio deserta. Non c’e’ nemmeno il parroco. Roba che tra un po’ fa eco pure il respiro.
Non entra nessuno per mezz’ora. Poi entra lo psicopatico in tournée, ma io ancora non lo so che e’ uno psicopatico in tournée perche’ lui non ha ancora aperto bocca.
“Merry Christmas!” mi fa, passando.
E gia’ li’…
“Merry Christmas” rispondo.
Con una settimana di anticipo, ma poi ragiono che su, dài, non stare sempre li’ a puntualizzare!
Il tizio va ad inginocchiarsi in prima fila. Dice qualcosa a San Giuseppe. Tra un po’ lo urla. S’alza su di scatto, raccatta la sacca coi libri, tira su il cappuccio della felpa e va verso la porta. Poi ci ripensa. Torna a inginocchiarsi davanti a San Giuseppe.
“Devo chiederglielo, devo chiederglielo, devo chiederglielo… no… non lo so… (segue borbottio in inglese inintelligibile)… lo chiedo…”
Capo, chiedigli quello che ti pare ma fallo sottovoce.
S’alza un’altra volta. Smanioso, ‘sto tizio. Io continuo imperterrita a guardarmi le scarpe. Gli lascio la sua privacy, ma lo tengo d’occhio con le orecchie. M’inquieta. Una di quelle cose che senti a pelle, che attivano il tuo quinto senso e mezzo, insomma.
“Posso chiederti una cosa?”
Eddài, San Giuseppe, rispondigli così la finisce!
Ma il tizio non sta piu’ parlando a San Giuseppe. Sta parlando con me. E’ li’ affianco. Quando ci e’ arrivato, non si sa. Schizzo su verso i candelieri tipo gatto Silvestro. Riatterro sulla panca. Faccio sì con la testa.
“Sei qui da sola?”
“In una chiesa non si e’ mai soli.”
Da dove mi sara’ venuta, questa? Lui pero’ nemmeno l’ha sentita. Si sta guardando intorno.
“Da sola… in una chiesa vuota… completamente vuota… non e’ sicuro, cosi’ da sola…”
“Non posso di certo portarmi dietro la gente quando voglio venire a pregare, sai.”
“Hai amici, qui?”
“No.”
Cretina.
Dovevi dirgli che sì, ce ne hai a milioni di amici, anzi, sono tutti in fila qui fuori, che ti aspettano pestando il piedino da mezz’ora.
“Stasera vado a un party a casa di gente che conosco, ti va di venire?”
Eccolo. Lo sapevo. Smanioso, rumoroso e pure piu’ resistente dello specchio dell’ascensore.
“Stasera ho un altro impegno, ma grazie.”
“Che impegno?”
Un chilo di cazzi tuoi no?
“Una cena anch’io. A casa di amici. Era stata decisa tempo fa.”
“Quindi amici ne hai, qui. Avevi detto di no.”
“Ne ho pochi, ma buoni.”
E intanto studio un modo per uscire dalla panca anche se lui ci s’e’ piazzato davanti.
“Festeggerai il Natale?”
“Ovvio che lo festeggio, sono cattolica.”
“Ah… sei cattolica…” No, guarda. Sono ortodossa e sono finita dentro una chiesa cattolica perche’ mi stava di strada. “E come lo festeggi, il Natale?”
“Come tutti i cattolici. Con un pranzo insieme alle altre persone.”
Voglio andarmene.
“Da quanto sei seduta qui?”
Faccio per controllare un orologio che, nella fretta, non ho messo. “Non lo so. Che ore sono? Comunque sia, devo mettermi in moto. Non voglio fare tardi per l’appuntamento di stasera.”
Esco passando dalla navata centrale. Lui passera’ sulla laterale, no? Ovviamente no. Mi si porta affianco.
“Come ti chiami?”
Nei due secondi che passano tra la sua domanda e il mio “Scusa?” per prendere tempo, mi vengono in mente duecento nomi.
Joanna.
Josephine.
Natalie.
Ma neppure un cazzo di nome non anglosassone. Perche’ che sono straniera s’e’ capito, anche se tutto sommato in Inghilterra ti ribattezzano con un nome inglese appena non riescono a masticare il tuo. Tipo trasformare una Zoya in Janet.
“Laura” dico, rollando la erre tre volte. Yo soy español!
“Laura… che bel nome… ha un suono bellissimo… veramente bello…”
Esco fuori sperando di beccare un prete almeno li’, tra le lapidi, ma vattene, neanche a parlarne.
“Domenica faro’ (blatera qualcosa che non afferro) al Duomo. Sai dov’e’ il Duomo?”
“Sì. E’ in centro.”
“Esatto! Durante la messa delle 11… se ti va di venire… ”
“Io a messa vado sempre a Hulme.”
Pinocchio.
“A Hulme??”
“Sì. Ci vado in compagnia. Gli altri abitano li’.”
Penso: mi butto in mezzo alle quattro corsie, pregando di non diventare parte integrante delle strisce di sorpasso, o aspetto il primo semaforo, ma poi questo continua a camminarmi affianco per altri duecento metri?
“Ok, ascolta, io vado di la’. Buona cena e buona serata.”
“Grazie, Laura. Passa una buona serata anche tu, e ricorda: il male e’ ovunque, e’ tutto intorno a te. Non lo dimenticare. Riguardati.”
Sì, sì, basta che mi lasci andare che devo trovare un pezzo di ferro. O di legno. Gufo.
A volte non e’ importante il contenuto di quello che si dice ma lo sguardo e il comportamento di chi lo dice.
Col tempo ho dovuto imparare a riconoscerli tutti e due. Per qualche motivo ancora in fase di indagine, pare che se c’e’ un paranoico nei paraggi, questo (o questa) me lo becco io.
C’e’ chi attira la sfortuna, chi i gay anche se e’ etero, chi le simpatie dei bambini anche se li odia. Io attiro i paranoici. Pure in chiesa. Pure quando sembro uscita da un remake di Monster. Deve funzionare come con le puzzole. Se cosi’ e’, la prossima volta che esco di casa m’affogo di Oust.
Il parco e’ dei tossici, il centro degli shopaolici, i canali degli ubriachi e le chiese dei paranoici.
Insomma, il posto piu’ sicuro in cui andare, a Manchester, e’ il pub.
Ho detto tutto.