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Ebbene sì, mi dichiaro prigioniero politico. Come è noto, prigioniero politico è chi è detenuto in prigione o agli arresti domiciliari, perché le sue idee sono ritenute da un Governo (dittatoriale o comunque antidemocratico) in grado di minacciare la sicurezza e l’autorità di uno Stato. In molti casi, i prigionieri politici sono detenuti senza alcun rispetto delle prerogative costituzionali e privati di qualsiasi tutela legale reale.
Certo, nel mio caso specifico, la perdita della libertà fisica è puramente simbolica; mi è consentita, infatti, la massima mobilità in ingresso e in uscita; anzi, posso praticamente fare tutto quello che desidero: leggere, scrivere, ascoltare musica, visionare film. Insomma, mi basta rispettare gli orari di ingresso e di uscita per non incorrere in alcuna penalizzazione. Sembrerebbe una condizione invidiabile: libertà assoluta e nessun obbligo da assolvere. Se poi a questa apparentemente idilliaca situazione ci aggiungete che per godere di questo “dolce far nulla” vengono anche lautamente retribuito da ben quattro anni, nessuno capirà le ragioni insondabili di questo mia dichiarazione dello status di “prigioniero politico”. Tutto mi è consentito, è vero, tranne che poter esplicare compiutamente la mia professionalità, attraverso l’affidamento di incarichi realmente miranti alla produttività. Si tratta di una vessazione sistematica basata su una totale ed ingiustificata sottrazione di incarichi, così da rendere umiliante e spersonalizzante il prosieguo della attività lavorativa, che viene attuata mediante una costante esclusione dal flusso di informazioni necessario per poter continuare a restare inserito nel processo lavorativo: una vera e propria “cancellazione” virtuale dell’identità e della professionalità.
Ma come in ogni “guerra”, se da una parte ci sono i prigionieri (pochi), dall’altra c’è il nemico che, in questo specifico caso, non assume le forme di un efferato esercito invasore, ma si presenta come la guida, falsamente paternalistica, che dovrebbe salvarci dalla disfatta e dalla morte aziendale. In mezzo, tra prigionieri e nemici, ci sono i collaborazionisti che sono pronti a prestare la loro opera al “nemico”, soggiacendo vilmente ai suoi voleri e asservendosi ai suoi loschi disegni.
Brutta cosa il collaborazionismo: questo fenomeno accadde con le terribili, letali conseguenze che conosciamo, nell’Europa assoggettata al dispotismo hitleriano alla vigilia della seconda guerra mondiale. Senza l’appoggio dei tanti governi “fantoccio” probabilmente la Germania nazionalsocialista non avrebbe conseguito l’infame “soluzione finale” della Shoah. Hitler strumentalizzò la burocrazia locale per il perseguimento dei propri insani fini di persecuzione degli ebrei e di sfruttamento dell’economia per le proprie esigenze di guerra. I burocrati erano facilmente addomesticabili alla causa tedesca per motivi riconducibili al tentativo di mantenere, con una strategia di accomodamento, uno status quo nel paese e di evitare guai peggiori: molto spesso era puro e semplice opportunismo.
Così, anche nella nostra realtà aziendale esistono numerosissimi “fiancheggiatori del regime” che fanno a gara per mostrare quell'atteggiamento compiacente di chi, attraverso vari gradi di comportamento, ha difficoltà "non tanto ad affrontare, quanto a riconoscere il proprio nemico", Essi, spesso per propri fini strumentali, preferiscono convincersi che questa classe dirigente, che sta perpetrando impunemente gli scempi cui tutti assistiamo, sia un “salvatore della Patria” e non sia, invece, il vero nemico da cui difendersi con tutte le forze.
In guerra il morale della popolazione civile era uno dei fattori decisivi da cui sarebbe dipeso l'esito della guerra, il collaborazionismo era perciò un elemento importantissimo della psicologia delle masse, al punto da poter essere considerato la vera arma segreta di Hitler, o meglio, "la più apprezzabile" (e foriera di successi) delle armi segrete. Uno degli ingredienti del successo del collaborazionismo, infatti, è che le sue vittime non si accorgono del processo cui sono sottoposte, cosicché esso rimane segreto ancor più per costoro che per chi lo mette in atto.
Nel nostro atipico fenomeno collaborazionista vi sono, ovviamente, diverse modalità e livelli di coinvolgimento. A un estremo di questo spettro di comportamenti vi sono "gli abitanti dei bassifondi" (in altri termini il sottoproletariato), che immaginano che la loro esistenza non peggiorerebbe sotto il dominio di questo Potere, poi coloro che evadono dalla realtà, immaginando che la guerra non ci sarà o che non sarà necessaria, e che comunque ogni controversia con l'invasore possa essere discussa e risolta pacificamente. Allo scalino successivo, si collocano coloro che riconoscono a questo Potere dispotico un certo grado di aggressività, limitata e suscettibile di essere “sventata” attraverso la concessione di un certo sfogo. Ad un livello ulteriore si colloca colui che considera l'aggressività come giustificata e niente affatto selvaggia come si vorrebbe.
Ci sono due categorie di persone che risultano soggette più di altre ad evolvere verso il vero e proprio collaborazionismo: gli insoddisfatti e gli insicuri, due elementi che possono anche coesistere. Il Potere, nella nostra realtà aziendale, ha fatto breccia soprattutto tra le persone insoddisfatte ed ambiziose, e cioè quei giovani dirigenti rampanti, sempre pronti a cambiare bandiera, agilissimi nel cambiare “padrone da servire”. Il loro prototipo si contraddistingue per essere solitamente un “piacione”, dal tasso di furbizia notevolmente superiore alla media, che negli anni ha accumulato una serie di conoscenze ed informazioni (soprattutto segrete), sia sulle attività lecite che su quelle illecite; informazioni che ha prontamente messo ha disposizione del “nemico”, diventandone referente - se non unico - sicuramente privilegiato.
Ma se i collaborazionisti per ambizione sono numericamente pochi, i più numerosi (ma anche i più pericolosi) sono quelli che scelgono di collaborare per insicurezza. Insicurezza determinata dalla paura di perdere i piccoli privilegi, ma anche e soprattutto, di poter diventare vittime, anch’essi “prigionieri politici”. La loro codardia li spinge, così, a dare una giustificazione razionale alla loro attività di collaborazione che, pur comprensibile, non può essere giustificata. A differenza dei collaborazionisti ambiziosi, i collaborazionisti insicuri non credono affatto nei progetti a cui partecipano. Si limitano ad eseguire gli ordini mostrando apparente interesse, fingono di credere nella bontà delle azioni decise dall’altro, riservandosi la critica alle stesse solo tra colleghi, senza mai avere l’ardire di evidenziarne i difetti al “nemico invasore”. Vivacchiano, tirando a campare, nell’attesa (messianica) che qualcosa cambi o meglio nella speranza che la fine sopraggiunga dopo il loro pensionamento.
Ebbene, io prigioniero politico, non posso e non voglio avere più a che fare con tutti i collaborazionisti, lo siano per scelta o per necessità. Per me sono allo stesso livello del “nemico”, non posso fare alcuna differenza. Anzi, in fondo, verso il nemico non nutro ovviamente stima, ma una particolare forma di rispetto. Nei confronti dei collaborazionisti, invece, nutro la più profonda disistima perché essi sono la causa principale di tutti i nostri mali. Sono proprio le loro paure, i propri patteggiamenti vili, le borghesi velleità ad averci condotto nel baratro. Troppi compromessi, troppe piccole beghe, troppo piccoli interessi individuali da difendere.
Certo, non tutti hanno il coraggio (o forse la follia) di immolarsi come “prigionieri politici”, ma dignità ed integrità dovrebbero essere maggiormente tenuti in considerazione.
Pertanto, miei cari odiati collaborazionisti dimenticatemi, io mi sono già dimenticato di voi
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