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Iper-inferno [13]: “Sabnock”

Da Ludovicopolidattilo

Iper-inferno [13]: “Sabnock”

Maestro mio infinitamente saggio,

consapevole dell’esiguità delle mie ragioni, oso comunque rivolgermi a voi affinché l’evento che mi ha costretto a fuggire dal laboratorio e mi impone di non farvi ritorno, non rimanga privo di spiegazioni. Il sodalizio da noi costituito in nome della ricerca non deve terminare, dopo undici proficui anni, con un silenzio irrisolto. A questa missiva il compito di evitarlo. Quanto rimane di Jasper Feyerabend dentro queste membra tormentate dalla metamorfosi e in questa mente che non desidera e non comprende più come ogni buon cristiano dovrebbe, tenta perciò di rivolgersi un’ultima volta a voi. Nessuna argomentazione, per quanto esaustiva e dettagliata, potrà attenuare l’intensità dei sentimenti che nutrite nei miei confronti, ma quanto di me si può ancora dire umano, vuole comunque tentare.

Il giorno in cui la metafisica sperimentale divenne per me ragione di vita, voi mi metteste in guardia rispetto ai pericoli della via intrapresa. Ricordo ancora le vostre parole: la conoscenza non deve mai essere piegata a esigenze personali, ma messa a disposizione dei più. Ero convinto dovesse essere così e tale convinzione guidò il mio agire sino alla scoperta del morbo. Quando appresi di averlo contratto disperai e non solo il vostro tentativo di confortarmi, vedendomi scostante, fu vano ma persino l’amore di vostra figlia Irenea, che avevo ormai più cara della stessa vita, riuscì a procurarmi sollievo.

Non potevo credere fosse così. Eppure, quando la vidi la prima volta entrare nel laboratorio con un vassoio di biscotti all’anice e la teiera d’argento, compresi ciò che mi sarebbe occorso per dirmi completamente felice e realizzato come uomo. Eppure dedicai ogni energia che la ricerca non mi sottraeva a corteggiarla affinché divenisse mia. Fu indescrivibile la gioia nel mio cuore quando compresi che le mie attenzioni non le erano indifferenti. Nulla – credevo nell’istante in cui le nostre mani si unirono per la prima volta – mi avrebbe mai potuto allontanare da quella fanciulla. I preparativi per le nozze ci videro distogliere l’attenzione dalla ricerca intrapresa solo parzialmente, ma ciò fu comunque sufficiente a farmi comprendere come insieme a una moglie devota avevo trovato anche un padre amorevole in voi. Il padre che non avevo mai conosciuto diventava un’ombra pallida del passato se paragonato al maturo, stimabile e presente genitore che voi avevate intrapreso a rappresentare. Tutto il dolore e il rimpianto di una vita solitaria scomparivano dissolvendosi nella gioia e nella pienezza di quella nuova fase della mia vita. Alla gaia serenità familiare che riuscimmo a creare, fecero riscontro persino lusinghieri e incoraggianti successi nella nostra ricerca. Poi il morbo si manifestò e un’ombra cupa si allungò su di noi e i nostri destini.

Irenea e voi stesso foste rapidi nell’intuire che qualcosa aveva compromesso la mia serenità, ma riuscii a dissimulare ciò che accadeva adducendo a pretesto stanchezza cagionata da ritmi di lavoro intensi e una anemia congenita solita riacutizzarsi periodicamente. Allora non avevo ancora in mente il disegno che avrei realizzato più tardi, ma ritenni ugualmente di celarvi il mio male per l’intuizione che in qualche modo la sua cura vi avrebbe portato acuto dispiacere.

Disperavo rispetto alla possibilità di trovare una cura quando ricordai quanto mi avevate detto sul libro-che-non-deve-essere-letto. Avevate accennato al fatto che tale volume conteneva le soluzioni a ogni tipo di problema, ma che le soluzioni in questione comportavano conseguenze assai più gravi rispetto ai problemi di cui rappresentavano la soluzione. Non riuscivo a pensare che voi poteste parlare del libro-che-non-deve-essere-nominato e dei suoi pericoli senza averne conoscenza diretta. Collegai quel pensiero all’esistenza di una sezione della vostra biblioteca preclusa a chiunque. Vi rubai le chiavi approfittando del vostro sonno e dopo aver superato tre ordini di cancelli e relativi chiavistelli arrivai al cospetto di un volume rilegato modestamente e senza alcun titolo impresso sulla copertina. Sollevai quest’ultima temendo di liberare chissà quale legione di creature orribili e letali e mi trovai al cospetto di un frontespizio che così recitava:

Hypertartaros

Il libro più malvagio e pericoloso mai scritto

Al lettore che avesse osato intraprendere la lettura di questo libro dico:
sarebbe stato meglio non lo avessi fatto ma ormai è troppo tardi
e dovrai subire tutte le gravissime conseguenze del tuo atto.
Al lettore che avesse opportunamente desistito
dall’intraprendere la lettura di questo libro non occorre dire nulla
visto che è stato furbo e se ne è andato via velocemente.
Sempre al primo lettore (quello che nonostante la fama tremenda di questo libro,
nonostante centinaia di frequentatori di biblioteche siano morti per averlo
sfogliato per puro caso, nonostante uno dio primordiale si risveglierà
per divorare il cosmo nel momento in cui il libro verrà aperto a una certa pagina
che non diremo per non rovinarvi la sorpresa e nonostante, infine, sia possibile trovare senza neppure uno sforzo particolare almeno sei libri in grado
di procurare al lettore poteri straordinari al punto da consentirgli con una certa facilità di diventare imperatore dell’Universo,
insomma il lettore che nonostante tutto ciò avesse deciso di leggere comunque)
<dico che la casa editrice ha in programma la pubblicazione di numerosi nuovi
testi di occultismo, magia nera, esoterismo e può essere contattata per ragguagli in merito grazie ai riferimenti riportati in quarta di copertina!

Mi trovavo certamente al cospetto dell’arma più potente che il Male avesse mai concepito per imporre il proprio potere su ciò che cammina, vive, pensa ed esiste. Esitai per interminabili minuti, incerto se far prevalere il mio desiderio di salvezza o il terrore legato alle conseguenze del mio agire. Mi risolsi infine a correre il rischio di liberare energie al di sopra di ogni umana comprensione a patto di vincere il morbo che minava l’integrità del mio essere e mi privava di ogni aspirazione al futuro.

Trovai rapidamente il capitolo dell’Hypertartaros che riguardava la guarigione dai morbi, dai venefici e dalle affezioni mortali (fu forse quel capitolo a trovare me?) e percependo tremare ogni brano del mio essere, ne lessi il contenuto. Le conseguenze di ciò che avrei intrapreso mi apparvero subito irreparabili, il prezzo da pagare immane, ciononostante proseguii.

Appresi allora che la chiave in grado di aprire la porta della mia e di ogni altra guarigione risiedeva in una sostanza che solo la ghiandola pineale umana secerne. Conoscevo l’importanza di tale organo per avere studiato l’opera di Cartesio che sull’argomento – come voi, maestro mio, ricorderete bene -, descrive la ghiandola pineale come quella parte del corpo in cui l’anima esercita immediatamente le sue funzioni. Una ghiandola molto piccola, situata in mezzo alla sostanza del cervello e “sospesa sopra il condotto attraverso cui gli spiriti delle cavità anteriori comunicano con quelli delle posteriori, in modo tale che i suoi più lievi movimenti possono mutare molto il corso degli spiriti, mentre inversamente, i minimi mutamenti nel corso degli spiriti possono portare grandi cambiamenti nei movimenti di questa ghiandola”. Insomma il luogo ove anima e corpo trovano il proprio punto di contatto, il confine tra modo fisico e mondo metafisico. Nulla di più mistico ma nel contempo intrinsecamente materiale e perciò manipolabile e sfruttabile secondo i propri fini.

Trovai nelle parole del grande scienziato e filosofo conferma dell’importanza della ghiandola pineale per l’integrità dell’essere umano, nel contempo intuii che portare a compimento la mia opera avrebbe comportato un prezzo assai superiore a quello supposto inizialmente.

Grazie alla mia fama di scienziato e ricercatore potei entrare facilmente nell’orfanotrofio conosciuto come Maison Desruynelles, collocato nella periferia della città. Elargendo compensi neppure di entità straordinaria, visto quanto andavo acquistando, mi procurai sedici bambine tra gli 8 e i 12 anni, ottenendo la possibilità di rimanere solo con loro per un tempo sufficiente a prelevare dai loro corpi quanto mi occorreva. Gli inservienti dell’orfanotrofio provvidero a ripulire quanto rimase delle sventurate creature in cambio di un obolo aggiuntivo piuttosto misero. Della scomparsa di quelle fanciulle nessuno si preoccupò e si può dire non vi furono conseguenze sulla vita dell’orfanotrofio.

Estrarre e distillare il liquido prodigioso che auspicavo mi avrebbe salvato la vita richiese molto tempo ma grazie agli strumenti disponibili presso il nostro laboratorio riuscii nell’impresa. Tuttavia, poiché il libro, sulla concentrazione dell’essenza necessaria all’impresa, indicava valori assai più alti di quelli da me raggiunti, fui costretto a procurarmi una maggiore quantità di materia prima per evitare che il rimedio risultasse inefficace. Poiché inoltre lo stato d’animo dei soggetti interessati al prelievo incideva sul risultato mi orientai verso adulti di tono emotivo assai meno compromesso rispetto a quello necessariamente melanconico delle piccole ospiti dell’orfanotrofio.

La mia attenzione fu attirata dal rio presso cui le lavandaie del borgo di Schaffhausen si recano a mondare i loro panni. Gli avidi aiutanti impiegati nel lavoro precedente presso l’orfanotrofio si resero disponibili di buon grado a questa nuova impresa. Molti di loro celarono a fatica una certa eccitazione quando li istruii sul da farsi. La distanza del luogo dall’abitato favorì la nostra azione e permise persino ai miei compagni di scelleratezze di sfogare qualche appetito sulle sventurate lavandaie. Il mio impegno nella dissezione degli encefali non mi permise di trattenere i bruti da quegli atti disdicevoli. Temo che persino qualche corpo esanime fu oggetto di attenzione impudiche da parte dell’accozzaglia di reietti alle mie dipendenze.

Reduce da quella nuova impresa trattai il materiale procuratomi come la precedente partita, consapevole del fatto che la vostra fiducia nella mia etica mi metteva al riparo da ogni sospetto per le notti trascorse in laboratorio a lavorare alacremente.

Purtroppo la sensibilità di vostra figlia Irenea le consentì di intuire che qualcosa in me era mutato. Comportamenti insoliti? Un nuovo atteggiamento meno pacato e quieto del solito? Forse tracce di sangue o materia cerebrale sui miei abiti borghesi? Ignoro quale indizio fece nascere in lei il sospetto. So tuttavia che si presentò nottetempo in laboratorio mentre lavoravo alla distillazione del fluido che mi avrebbe restituito alla vita e alla speranza e mi chiese conto dei miei comportamenti bizzarri. Sarei riuscito a dissimulare ogni cosa e a convincerla del mio candore se non avesse scorto sul tavolo anatomico alcuni brani di membra umane poco opportunamente da me conservate per compiervi esperimenti la cui natura esula dagli obiettivi di questa missiva. Mai atto fu più doloroso. Mai atto fu più necessario. Privai la vostra carne e la mia devota sposa della vita. Vi assicuro che mai amerò una creatura più di Irenea e che finché il senno non vacillerà non dimenticherò di ricordarla nelle mie preghiere e nelle mie invocazioni affinché la sua povera anima riposi in pace.

La mano che regge la penna trema mentre vi confesso il mio atto e vi immagino mentre apprendete che la scomparsa di vostra figlia in seguito a un’escursione in montagna durante la quale un crepaccio la inghiottì a causa del suo essere incespicata in una radice non corrisponde a verità. Dovetti infatti smembrare il suo corpo dalle deliziose fattezze e occultare le diverse porzioni nel giardino in cui spesso amavate conversare con lei sorseggiando un tè nel tardo pomeriggio. Spero che la presenza di quei resti sepolti qua e là non vi renda sgradito riprendere quella tradizione, in futuro, non appena il dolore connesso a queste rivelazioni si attenuerà. Sicuramente non mancherete di individuare una compagnia femminile disponibile ad assecondarvi. Non potrà essere Irene poiché non la rivedrete mai più ma potrete piantare nuove dalie sul terreno in cui riposa in modo da appagarvi degli effluvi profumati che nutrendo i suoi fiori preferiti ella contribuisce a produrre.

Poiché la mia lucidità sembra vacillare un poco in questi istanti, probabilmente in quanto scrivendovi devo riportare alla memoria quei fatti dolorosi, passo a dirvi dell’esperimento conclusivo che le parole del libro maledetto mi guidarono a eseguire.

Delle modalità di assunzione dell’essenza che distillai permettetemi di tacere. La vergogna che ancora provo mi impedisce di affrontare la questione persino per iscritto. Ma in quanto scienziato sono certo che vi importa degli effetti piuttosto che dei dettagli secondari. Ebbene, quando l’essenza spirituale di ben trentuno fanciulle, sintetizzata dall’alambicco, penetrò in me, assaporai quasi una sorta di fusione con il cosmo e gli strati primevi della sua trama dove energia, materia e spirito si fondono sino a divenire uno. Naturalmente seppi di essere guarito dal morbo immediatamente ma seppi di più, e qui la mia voce (immaginate io parli invece di scrivere) si fa incerta. Assaporai una voluttà inusuale per la mia natura ritirata e vocata alla rinuncia. Poi i miei sensi si acuirono. Infine pensai cose nuove in modi che non conoscevo. Seppi allora che qualcuno o qualcosa era entrato in me col rito appena realizzato e che la fisiologia non era la sola cosa mutata in me.

Nei giorni successivi all’evento abbandonai la vostra casa, la ricerca che avevamo condotto insieme per anni, la mia identità e viaggiai lontano da tutto quello che conoscevo come in balia di una natura ferina e determinata che, tuttavia, non condivideva con me i suoi progetti ma mi trascinava verso la loro realizzazione pressoché ignaro.

Trascorsero alcune settimane (ignoro quante) e le fondamenta della mia identità iniziarono a riempirsi di crepe, queste si ispessirono e alla fine del percorso quanto di Jasper Feyerabend gli uomini avevano conosciuto si era sgretolato al punto da manifestarsi solo pochi minuti al giorno come se il resto del tempo una nuova personalità o identità avesse preso il sopravvento e supplisse alla sua assenza.

Ora sono me stesso e per questo posso scrivervi. So di avere mancato nei vostri confronti e di avere tradito la vostra fiducia ma, se la misericordia che so vi appartiene non è stata soffocata dai lutti di questi ultimi tempi, a cui riconosco di non essere estraneo, vi supplico di soccorrermi. Temo che un demone dell’oscurità si sia impossessato del mio corpo e mi stia progressivamente esautorando da me stesso. Vi prego di attingere alle vostre straordinarie conoscenze per trovare un rimedio che

Intervengo io. Sono Sabnock. Mi dispiace per la frase lasciata a metà ma Jasper non è più in grado di proseguire. Mi scuso inoltre per la calligrafia meno elegante della precedente. Visto però che sono stato chiamato in causa non vedo perché non dovrei dire la mia. Anzi a questo punto sono proprio l’unico in grado di dire la sua. La faccenda è chiusa. L’idiota non ha capito che non ci sono soluzioni. Se anche ce ne fossero tu non faresti in tempo ad aiutarlo. Ammesso che tu abbia voglia di trovarle. Non ha capito che quelli appena trascorsi sono stati gli ultimi minuti a sua disposizione. Ora ci sono io. Ora conduco io. Ora guido definitivamente io. E ti assicuro una cosa. Non hai nulla da temere. Nessuno deve temermi. Nelle taverne, nei lupanari e nelle biblioteche di questo mondo trovo tutto ciò che mi occorre. Ne trovo un bel po’ e non mi sono mai divertito tanto. So cosa significa vivere spassandosela. Di altro non so e non mi importa sapere. Quanto il verme che mi ha fornito questo corpo ha fatto mi dispiacerebbe persino un po’ se perdessi tempo a pensarci. Ma ho di meglio da fare. Cerca di vedere il lato positivo della questione: te ne sei liberato per sempre.

Circa l’Hypertartaros, custodiscilo con maggiore cura d’ora innanzi. Non è detto che un giorno decida di venire a dargli un’occhiata. Il fatto che ciò sia nato da un libro mi fa quasi sentire un personaggio letterario!

Tanti saluti,

Sabnock (un tempo quell’idiota di Jasper Feyerabend)

Continua…



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