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Ipocrisia, sottomissione, menzogna

Creato il 15 giugno 2010 da Rufo
“Ipocrisia” viene dal greco antico “hypokrisis”, che è “l’azione di chi recita una parte sul palcoscenico”. L’ipocrita è etimologicamente un attore. Tuttavia, non chiamiamo ipocriti tutti coloro che recitano, perché riconosciamo che alcune finzioni sono tristi necessità della vita più che tentativi di ingannare il prossimo. In particolare, non chiamiamo ipocrita chi si sottomette alle attese sociali. Davanti a capi, sconosciuti sospetti, amici che non vogliamo offendere, possiamo pronunciare omaggi di circostanza a valori che non abbiamo mai seguito. Lo facciamo senza calore e nelle forme più brevi. Se queste recite diventano quotidiane – sul lavoro, in famiglia – ci mettiamo a sognare un futuro dove potremo essere noi stessi.
Al contrario, l’ipocrita è attivo e felice. Attivo perché declama virtù che nessuno gli chiede di appoggiare; anzi, spesso l’ipocrita sa di deludere i suoi interlocutori, per esempio quando rimprovera loro qualche peccato. Felice perché quando parla ha l’aria di essere soddisfatto di sé.
Non chiamiamo ipocrisia neanche la menzogna pura, che mira a imbrogliare. Il finto impiegato dell’azienda del gas che estorce soldi alla vecchietta ignara è un furfante, non un ipocrita. Raggiunti i complici, tornerà nei suoi panni e riderà della vittima.
L’ipocrita invece è in recita permanente. Ciò che dice, lo dice sempre e lo dice a tutti, compreso sé stesso. Se volete, l’ipocrita perfetto è quello che continua nelle sue dichiarazioni anche mentre i suoi atti lo smentiscono. I medici riferiscono di donne antiabortiste che militano in gruppi “pro-vita” ma chiedono di abortire quando incappano in una gravidanza indesiderata, o aiutano le figlie a farlo. A volte l’esperienza le conduce a rivedere le loro idee sull’aborto, altre volte no. Prendo questo episodio da un articolo di Joyce Arthur, un’attivista abortista canadese. Il narratore è un medico di una clinica americana dove si praticava l’aborto:
[N]ell’area di Boston, Operation Rescue e altri gruppi picchettavano regolarmente le cliniche e molti di noi, per mesi, dovettero andare ogni sabato ad aiutare le donne e il personale a entrare. Come risultato, conoscevamo di persona molti degli “anti”. Una mattina, una donna che era stata una regolare capo-picchetto venne alla clinica con una ragazza che sembrava avere 16-17 anni, e che era chiaramente sua figlia. Quando la madre mi raggiunse un’ora dopo, non potei fare a meno di chiederle se la situazione della figlia le avesse fatto cambiare opinione. “Non mi aspetto che possa capire la situazione di mia figlia”, rispose con rabbia. Il sabato seguente era di nuovo lì, implorando le donne che entravano in clinica di “non uccidere i loro bambini”.

Dato che la fonte è di parte non sono certo che l’episodio sia vero, ma riconoscete nella doppiezza di questa madre – reale o inventata che sia – una psicologia realistica. Con qualche ricerca, trovereste anche l’attivista pro-aborto che preme sulla figlia incinta perché tenga il bambino.
Per arrivare a un giudizio su Voltaire avremmo bisogno di conoscere i suoi discorsi in privato. Se a letto con l’amante diceva “oh, questa baggianata della tolleranza rende bene: oggi la duchessa di C. mi ha scritto che sono lo spirito più nobile dei nostri tempi!” era un furfante. Se invece esaltava sempre la tolleranza, in pubblico e con gli amici, nei libri e nelle conversazioni, la sua operazione contro Rousseau lo qualifica come un ipocrita.
Di Voltaire come persona ci restano la sua corrispondenza (21.000 lettere) e le cronache dei suoi contemporanei. Né nell’una né nelle altre incontriamo frasi meno che alate sulla tolleranza. Anche nei Sentimenti dei cittadini, dove si copre con l’anonimato, Voltaire vuole sottolineare che la tolleranza “è una virtù”: se invoca la punizione di Rousseau è solo perché l’autore delle Lettere ha sconfinato nella demenza. Purtroppo, capite che non c’è differenza pratica fra un intollerante e un tollerante che trova il modo di fare eccezioni contro i suoi nemici.
Il Voltaire che nega i fatti scrivendo al Segretario di Stato di Ginevra pare slittare verso la furfanteria. Però notate l’ambiguità della lettera. Voltaire scrive “se avessi fatto il torto più piccolo alla sua persona”: può significare che non ha fatto nulla a Rousseau o che non ha fatto nulla che non avesse ragione di fare (nessun torto). E “se fossi servito ad opprimere un uomo di lettere” può significare sia che non è intervenuto, sia che il suo intervento non è “servito”, perché Rousseau sarebbe stato punito comunque.
(Parti precedenti / Continua)

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