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Iran: Rouhani, un anno da Presidente

Creato il 26 settembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

Hassan-Rouhani-Iran

di Stefano Lupo

Da più parti si è ritenuto che il primo anno da Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran dovesse essere il momento più difficile del percorso politico di Hassan Rouhani, religioso e politico moderato, negoziatore del dossier nucleare tra il 2003 e il 2005 e per ben sedici anni (1989-2005) Segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza. Non è così, per una serie ben precisa di motivi. Senza scomodare ingombranti richiami all’Obama Style del Presidente eletto nel giugno 2013, è verosimile che le aspettative che hanno circondato il chierico dall’inizio del suo mandato, con le esultanze popolari per la sua vittoria elettorale e la diplomazia da “telefono rosso” per rinnovare il cammino sul negoziato per il nucleare con le controparti storiche, abbiano protetto il neo Presidente dalle critiche per almeno sei mesi, senza dimenticare l’accordo ad interim del 24 novembre 2013.

Tuttavia, proprio come per Obama, le aspettative rischiano di divenire un’arma a doppio taglio, specie dopo un periodo funesto, sia sul piano internazionale sia in ambito interno, come quello del predecessore Ahmadinejad. Il secondo anno di mandato sarà rilevante per definire gli equilibri e validare le misure politiche, economiche e sociali nazionali tenendo ben presente un aspetto fondamentale: il destino politico di Rouhani è direttamente collegato al negoziato sul nucleare, pur non potendo avere il Presidente l’ultima parola in merito. La salienza del momento è ben rappresentata dalla tensione parlamentare che sta attraversando il Majilis in questi mesi, con lo scontro tra linea dura e moderati, e soprattutto con le reazioni del Presidente, ben lontane dalla compostezza alla quale ha abituato la comunità internazionale. La traduzione britannica di impeto è “momentum” e questo è il momentum della Repubblica Islamica dell’Iran con l’annata 2014-2015 che potrà dire molto di quello che ne sarà nel futuro. Le accuse di codardia e gli inviti a “recarsi all’inferno” contro chi “ostacola l’azione di governo sul nucleare” hanno suscitato la pronta reazione degli hard-liners con l’impeachment al Ministro della Scienza Faraj Dana (per supposte contingenze con i movimenti del 2009), il 19 agosto. Il Presidente ha prontamente replicato con una mossa altrettanto polemica, appuntando Ali Najafi, bloccato nella nomina dal Parlamento stesso, nell’agosto 2013 [1].

È la percezione del “momentum” a innervosire la scena politica iraniana; in molti vedono nel fermo a quattro giornalisti statunitensi, tra cui l’iraniano-americano Jason Rezaian, corrispondente da Teheran per il Washington Post, l’ulteriore disegno della linea dura (una variopinta compagine che raggruppa parte dei conservatori e parte del command network della Guardia della Rivoluzione) per ridurre lo spazio di manovra del Presidente e del suo staff, sia nello scenario nazionale, sia nelle difficili issues regionali e globali. La tensione è palpabile ed è concreta la sensazione che un “colpo” troppo forte, proveniente o dall’agone iraniano o dalle issues internazionali, possa vanificare la proroga al 20 di novembre per decidere un accordo definitivo sul nucleare. E’ per questa ragione che Rouhani ha ribattuto duramente alle nuove sanzioni americane comminate a imprese e singoli con legami con il settore nucleare, proprio nei giorni in cui l’Iran stava iniziando le dovute modifiche del rettore di Arak, per ridurre l’output di plutonio, come da accordi. Si sospetta che il tono duro del Presidente, che ha voluto escludere qualsiasi collaborazione con gli USA extra-nucleare, fosse propedeutico a tenere buoni gli elementi più ostili alla politica di appeasement; un ulteriore esempio di come Rouhani cammini su una corda tesa, che in troppi provano a scrollare.

Il quadro del primo anno da Presidente è di un grigio quasi perfetto, con alcuni successi minati dall’enorme mole di lavoro per riequilibrare il sistema economico iraniano e soprattutto per controbilanciare le problematiche regionali, ipoteticamente in grado di evolversi o in opportunità di svolta o in faglie di crisi irrecuperabili. Eletto per non essere un Presidente di rottura, ma anzi per rappresentare il fautore della sopravvivenza del regime politico degli Ayatollah, agendo come bilanciamento sistemico, Rouhani ha percorso la via del pragmatismo, cercando di disarticolare da un lato l’estremismo tipico della scena politica iraniana e dall’altro di rimanere al di sopra dei giochi di potere (da Mousavi a Karroubi, fino al mentore Khatami, ancora ostracizzato).

Il recupero economico del Paese, reso quasi impossibile per l’azione combinata delle sanzioni internazionali e delle scorie della passata gestione di Ahmadinejad (con un debito pubblico in deflagrante aumento e l’incapacità concreta di saldare i propri conti con gran parte del settore privato), si è focalizzato sia sulla mancata integrazione tra banche (limitate nelle transazioni) e imprese, sia sulle necessarie modifiche per ridurre costi e sprechi connessi alla politica dei sussidi.

La considerazione che la forza economica di un Paese dica molto del suo potere nazionale è ben presente nello staff di Rouhani, che ha cercato, attraverso la modulazione di alcuni mini-piani economici e di un macro piano quadriennale, di sostenere il mercato del lavoro attraverso gli impulsi al settore privato, provando a tagliare gli eccessi senza scadere in una limitante politica di austerity.

Le politiche per ridurre l’inflazione (dal 40 al 24%, come da Rouhani stesso confermato attraverso la sua collaudata pagina Twitter) e l’analisi scientifica delle problematiche ambientali, dall’acqua alle polveri sottili (l’Iran è uno dei Paesi con i centri abitati più inquinati del mondo) mirano a completare un quadro, che comunque resterebbe incompleto senza un accordo duraturo e soddisfacente sul nucleare.

Due sono però le incognite, una esterna e una interna, che il Ministro degli Esteri e negoziatore Zarif dovrà affrontare di concerto con il Presidente. L’allargamento della crisi regionale, dalla Siria all’Iraq con lo spauracchio dello Stato Islamico, rappresenta un’opzione di convergenza di interessi con gli Stati Uniti (forse persino con l’Arabia Saudita), un elemento che potrebbe tornare utile nel breve periodo, ma che soprattutto  gli USA, potendo, vorrebbero escludere dal dossier nucleare per non legarsi le mani troppo strette, pur alla luce del fatto che la Repubblica islamica, in verità attore politico internazionale fortemente razionale, non esclude a priori nessuna entente, purché conveniente e rispondente a una logica win-win e non a un approccio a somma zero [2]. Rimane tuttavia la macro issue del fronte interno, laddove la logica spesso abbandona lo scenario relazionale, per lasciare il passo a posizioni di potere consolidatosi e reti di influenza difficilmente scioglibili. Non è certo un mistero che la particolare congiuntura economica di questi anni abbia favorito la fioritura di gangli finanziari e di imprese collegate alla Guardia della Rivoluzione e all’élite economica ad essa riconducibile. La devianza dell’economia iraniana è tale che molti credono che anche in caso tutte le sanzioni fossero tolte, l’economia rimarrebbe un rebus, proprio per la necessità di ripartire da zero e scalzare le posizioni di monopolio e cartello [3].

Risulta quindi fondamentale l’appoggio che a Rouhani potrebbe arrivare dalla Guida Suprema, quel Khamenei che ama spesso tirare le fila da dietro le quinte, decidendo le linee politiche ma “mandando avanti” figure politiche più “classiche” [4]. Dopo le dure parole contro le nuove sanzioni americane, la linea dura ha approvato l’atteggiamento di Rouhani verso l’approccio “contorto e non sincero” americano, alludendo all’allineamento del Presidente sulle posizioni della Guida Suprema, “unica voce del Paese”. Un modo elegante per ricordare a Rouhani i limitatissimi spazi di manovra di cui dispone, ancora più angusti se paragonati alle sue possibilità nella politica internazionale. Un elemento di cui gli USA, alla luce del fenomeno ISIS, dovrebbero tenere conto [5], ora più che mai, soprattutto nell’agone del Summit ONU di questi giorni, anche se sembra che siano gli europei (su tutti Francia e Regno Unito) a voler maggiormente mettere “nero su bianco” una possibile partnership contro lo “Stato Islamico” [6]. E’ chiaro come al di là delle pressioni, interne ed esterne, per frenare l’azione comune con Teheran, gli USA temano di rendere troppo forte la posizione della Repubblica islamica [7], al punto da non poter più avere spazio di manovra al tavolo negoziale di novembre. E’ un rebus di non poco conto, che trova tuttavia ipotetiche chiavi di soluzione nella reticenza dell’antico alleato USA nell’area, la Turchia e nell’azione sempre più autonoma e poco concertata di Israele (che anzi rappresenta uno dei principali oppositori dell’appeasement strategico tra Washington e Teheran).

I bombardamenti arabo/americani in Iraq e ora anche in Siria sulle postazioni ISIS, (e non solo, come nel caso di Khorasan) [8], possono eventualmente significare la volontà americana di dimostrare di poter contenere, e ridurre, l’ISIS senza aver bisogno dei “boots on the ground” iraniani (peraltro presenti sia in Siria sia in Iraq indipendentemente dall’approvazione statunitense.) Nondimeno, occorre evidenziare come una mancata convergenza sul dossier dell’estremismo sunnita, oltre che a minare sicuramente qualsiasi entente per quanto concerne il nucleare, rischierebbe di evocare la tragica interruzione dei rapporti tra Washington e Teheran dopo la dichiarazione “sull’asse del male” del 2002 allorquando i due Paesi stavano effettivamente collaborando nel caso afghano (con Zarif in prima fila).

Il primo passo, che da sempre, in frangenti simili, rappresenta quello più lungo, è il compito più difficile dell’amministrazione Obama: non ci può di certo aspettare la mano tesa di Teheran, dal momento che i falchi interni hanno reso la posizione di Rouhani alquanto ingessata. Tocca all’America liberare il Presidente iraniano dall’impaccio e vederne, nel breve-medio termine, i possibili frutti, magari, finalmente, con il contributo determinante del soft power diplomatico della disunita Europa.

* Stefano Lupo è Research Fellow presso Iran Progress e Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche e Politiche ed Economia del Mediterraneo (Università di Genova)

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[1] Making Mischief, in “The Economist”, 22 agosto 2014.

[2] Kayhan Barzegar, The Balance of Power in the Persian Gulf: An Iranian View, in Journal Article, Middle East Policy, volume XVII, issue 3, pp. 74-87, autunno 2010.

[3] Suzanne Maloney, Rohani Rocky First Year: a Report Card, in “Brookings”, 4 agosto 2014.

[4] Gareth Smith, Khamenei’s Way Is to Lead from the Back, in “The Daily Star Lebanon”, 1 settembre 2014.

[5] Thomas Erdbrink, Facing Hard-Liners and Sanctions, Iran’s Leader Toughens Talk, in “International New York Times”, 30 agosto 2014.

[6] Michael Savage, Deborah Haynes, Cameron to ask Iran for help in war against ISIS, in “The Times”, 23 settembre 2014.

[7] Una posizione, quella della potenza iraniana nell’area, per certi versi condivisibile, visto il panorama d’instabilità regionale. Sembra pensarla alla stessa maniera anche il consigliere militare di Khamenei, il generale di brigata Safavi. Si veda Khamenei’s Advisor: US must recognise Iran is the Strongest Power in the Region, in “The Middle East Monitor”, 22 settembre 2014.

[8] Terrence McCoy, Targeted by U.S. airstrikes: the Secretive al-Qaeda cell was plotting an ‘imminent attack’, in “The Washington Post”, 23 settembre 2014.

Photo credits: Iranian Government

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