Difficile non associare la riedizione del “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani” di Giacomo Leopardi con le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Composto tra la primavera e l’inverno del 1824 questo pregevole testo del poeta di Recanati fu pubblicato postumo per la prima volta nel 1906 ed è un pamphlet sulla mentalità, il carattere e la moralità della società italiana ancora oggi valido per definire quello che siamo.
“… Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci (…) Tutti sanno, con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e d’altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni (…) Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio…”.
Praticamente affermava Leopardi che l’Italia è una terra incapace di costruire una convivenza civile persa com’è nel suo particolarismo comunale. Un paese difficile da gestire dominato com’è dal cinismo dei propri sudditi incapaci di rispettare e di farsi rispettare. Siamo come un altro “grande” del passato (Guicciardini) affermava un agglomerato di singoli individui sprofondati ognuno nel proprio orizzonte privato (“proprio particulare”). Leopardi stesso nel 1824 diceva dell’Italia essere un paese troppo smaliziato per provare un autentico amore per la patria in cui l’opinione pubblica e la società civile stentano a trovare la propria maturità. Come tutti oggi possiamo notare, a questo nostro Paese, manca un legame che fa di una somma di individui, corporazioni, ecc. una “società civile” fondata non solo sul rispetto delle leggi ma soprattutto sul senso di responsabilità. Il “Discorso…” di Leopardi dà l’impressione di denunciare una incapacità strutturale, genetica del popolo italico.
Consiglio a tutti di leggere questo libretto di poco più di 100 pagine, si esce dalla lettura con quel salutare sentimento dualistico di “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà” che Gramsci poneva a fondamento di un nuovo tipo di italiano.
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